Le esperienze fra la vita e la morte: una prospettiva psicologica
Le cosiddette “esperienze di premorte” (in inglese near-death experiences, NDE) sono dei vissuti riferiti da persone che si sono trovate in condizioni di imminente morte, come arresti cardiaci, gravi incidenti, coma o stati critici, e che in seguito hanno raccontato queste esperienze. Cerchiamo di saperne di più.
Da quanti anni si studiano le sensazioni di pre-morte?
Gli studi scientifici sulle esperienze pre-morte ed extra-corporee sono iniziati negli anni settanta, con il libro “La vita oltre la vita” dello psichiatra americano Raymond Moody.
Cosa sono le esperienze di pre-morte, o NDE?
Sono esperienze provate da persone che si sono trovate fisiologicamente molto vicine alla morte, ad esempio per arresto cardiaco o altre condizioni mediche o emergenze potenzialmente letali, o perché credevano che la morte fosse imminente (Greyson 1999 ).
Ci sono caratteristiche comuni nelle esperienze di pre-morte?
Si. Sono state descritte in letteratura delle esperienze condivise da diverse persone (Moody, 1975; Greyson, 1983). Tra le più comuni:
- la percezione di “uscire dal proprio corpo” (esperienza extracorporea);
- il passaggio attraverso un “tunnel” o una dimensione oscura verso una “luce intensa”;
- la sensazione di “pace profonda” e “assenza di dolore”;
- l’incontro con “persone decedute” o “entità spirituali”;
- la visione panoramica della propria vita (“life review”);
- il senso di “unità con l’universo” o di “trascendenza”;
- il rifiuto o la scelta di “ritornare nel corpo”.
In uno studio pubblicato nel 2006 da Kevin Nelson le esperienze delle persone che si erano trovate vicinissime alla morte erano le seguenti:
- senso di pace (87 %),
- gioia (64%),
- presenza di una forte luce (78%),
- sensazione di trovarsi in un ambiente “da altro mondo” (75%)
- sensazione di essere uscito dal proprio corpo (80%)
- percezione alterata dello scorrere del tempo (62%).
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Queste esperienze in che modo cambiano la persona?
Le NDE sono spesso associate a profondi cambiamenti nella persona, tra cui:
- diminuzione della “paura della morte”;
- incremento della “spiritualità” e del “senso di scopo”;
- maggiori atteggiamenti “prosociali”;
- difficoltà di adattamento al ritorno alla quotidianità, specie se l’esperienza non è condivisibile socialmente. Alcuni individui, infatti, sperimentano un “conflitto identitario” dopo l’esperienza, che può generare isolamento o senso di incomprensione, a meno che non trovino contesti terapeutici o gruppi di supporto in cui elaborare l’evento.
E’ possibile studiare scientificamente queste esperienze?
Sebbene molti studi confermino la coerenza interna e l’impatto delle NDE, il loro “statuto epistemologico” rimane controverso. Le principali critiche riguardano la difficoltà di distinguere tra esperienza soggettiva e realtà oggettiva; l’impossibilità, a oggi, di dimostrare una “sopravvivenza della coscienza” indipendente dal cervello; il forte rischio di interpretazioni “pseudoscientifiche” o “dogmatiche”.
Quali sono le spiegazioni scientifiche finora date per queste esperienze?
Sono state avanzate numerose spiegazioni scientifiche per spiegare le NDE:
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- Ipotesi neurofisiologiche: attribuiscono le esperienze a meccanismi cerebrali in situazioni di anossia o stress estremo. La “liberazione di endorfine”, “alterazioni temporo-parietali” o “iperattività dell’ippocampo” sono alcuni dei fattori analizzati.
- Ipotesi psicologiche: considerano le NDE come “costrutti difensivi”, prodotti dalla mente per fronteggiare l’angoscia di morte. In quest’ottica, le esperienze sarebbero una forma di “dissociazione” o “fantasia regressiva” legata a bisogni profondi di continuità e sicurezza.
- Ipotesi transculturali: riconoscono che, pur avendo tratti universali, le NDE sono influenzate dal “contesto culturale” e dalle credenze personali. Ad esempio, le figure incontrate tendono a riflettere l’immaginario religioso del soggetto.
E’ indubbio, tuttavia, che le NDE pongano interrogativi profondi sul funzionamento della coscienza, sul significato dell’identità e sul rapporto tra vita e morte.
Negli ultimi decenni, il concetto di morte è cambiato?
Si, ha subito una trasformazione radicale, passando da un evento puntuale (l’arresto cardiaco) a un processo complesso e potenzialmente reversibile. Questa evoluzione è dovuta a importanti innovazioni mediche e tecnologiche, che hanno permesso di prolungare la vita, rianimare persone in arresto cardiocircolatorio, monitorare l’attività cerebrale e persino intervenire nei minuti successivi alla morte apparente.
La cosiddetta “morte clinica”, una condizione che un tempo era considerata definitiva, è oggi diventata un momento di frontiera.
Negli anni ’60, con lo sviluppo delle tecniche di rianimazione cardiopolmonare (RCP), si è reso necessario distinguere tra la cessazione delle funzioni cardiache e la cessazione irreversibile delle funzioni cerebrali. E’ nato così il concetto di “morte cerebrale”, definita come l’assenza totale e irreversibile di attività cerebrale, che è oggi lo standard legale per dichiarare la morte in molti Paesi.
Le tecnologie di neuroimaging e gli elettroencefalogrammi (EEG) ad alta risoluzione permettono oggi di monitorare con maggiore precisione l’attività del cervello, contribuendo alla diagnosi, ma anche sollevando interrogativi su stati di coscienza residui.
E’ possibile oggi “sospendere” il processo di morte?
Si. Le tecniche di rianimazione avanzate, come l’ossigenazione extracorporea (ECMO), l’ipotermia terapeutica e l’utilizzo di farmaci neuroprotettivi, consentono oggi di “sospendere” temporaneamente il processo di morte e recuperare pazienti anche dopo 20-30 minuti di arresto cardiaco, in condizioni specifiche. Ciò ha spostato la soglia della reversibilità della morte, con implicazioni cruciali per la medicina d’emergenza.
Lo studio AWARE (Parnia et al., 2014) ha messo in discussione l’idea che la coscienza si spenga immediatamente dopo l’arresto cardiaco. Alcuni pazienti hanno riportato esperienze coscienti in momenti in cui il cervello avrebbe dovuto essere inattivo. Tali osservazioni stanno spingendo la ricerca verso una concezione della coscienza non completamente riducibile all’attività cerebrale misurabile.
Parallelamente, l’intelligenza artificiale e la realtà virtuale stanno creando nuove forme di “sopravvivenza simbolica” attraverso la creazione di avatar, chatbot o ologrammi basati sui dati digitali lasciati dalle persone decedute. Si tratta di un’estensione dell’identità che solleva questioni etiche sulla continuità del Sé, sul lutto e sull’elaborazione della perdita.
La possibilità di intervenire dopo l’arresto cardiaco solleva insomma dilemmi profondi: quando è giusto sospendere i tentativi di rianimazione? Fino a che punto si può parlare di “ritorno alla vita” senza considerare la qualità dell’esistenza? Come gestire i casi in cui vi è attività cerebrale residua ma assenza di coscienza?
Dr. Walter La Gatta
Principali Studi consultati
Greyson, B. (2010), Parnia, S. et al. (2014) Thonnard, M. et al. (2013)
Immagine
Foto di Magda Ehlers