Dr. Walter La Gatta Psicoterapeuta Sessuologo

Dr. Walter La Gatta

Dr. Walter La Gatta


CHI SONO

Laureato in Psicologia a Padova, autorizzato all’attività di Psicoterapia, formato in Sessuologia presso il Centro Italiano di Sessuologia di Bologna (Prof. Rifelli).

Laureato in Sociologia a Urbino.

Iscritto all’Albo del Centro Italiano di Sessuologia di Bologna e all’Albo della FISS – Federazione Italiana Sessuologia Scientifica.

Iscritto all’Ordine degli Psicologi della Marche nella sezione A dell’Albo dal 02/12/2003 con il N. 1039

Ex Membro del Consiglio Direttivo Nazionale e Delegato Regionale Marche Abruzzo e Molise del Centro Italiano di Sessuologia

Come psicoterapeuta, sono stato ospite in numerose trasmissioni televisive radiofoniche. 

Ho organizzato diversi Convegni per la diffusione del sapere psico-sessuologico.

Intervista su Eiaculazione Precoce

Ho pubblicato volumi di psicologia, per quanto riguarda l’adolescenza e la pet therapy. Ultimo libro: Come vivere bene, anche se in coppia, edizione Franco Angeli.

Svolgo attività libero professionale ONLINE, Via Skype e Whatsapp e mi occupo prevalentemente di Terapie Individuali Terapie di Coppia.

Nelle psicoterapie da me condotte possono essere incluse le Tecniche di Rilassamento e l’Ipnosi clinica.

Dr. Walter La Gatta

DI COSA MI OCCUPO

In ambito psicologico mi occupo in particolare di:

  • Ansia, Timidezza e Fobie Sociali
  • Attacchi di panico
  • Public Speaking
  • Difficoltà relazionali

In ambito sessuologico mi occupo in particolare di:

  • Disfunzioni sessuali
  • Matrimoni Bianchi
  • Dolore sessuale
  • Calo del desiderio
  • Dipendenza da pornografia
  • Ansia da prestazione

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Aprile 19, 2025Quante ne sai sul pene? Verità e leggende – Test Il pene è forse uno degli organi più mitizzati del corpo umano. Tra verità scientifiche, credenze popolari e disinformazione, è facile perdersi. Questo quiz ti aiuterà a capire quanto sei informato/a sulle sue reali funzioni, misure, sensibilità e salute. Mettiti alla prova con queste 10 domande e scopri se sei un/a esperto/a, un/a curioso/a in crescita o un/a vittima dei falsi miti. DOMANDE 1. Qual è la media della lunghezza di un pene eretto secondo gli studi scientifici? A. Circa 13-14 cm  B. Circa 16-18 cm C. Circa 20 cm 2. Il punto più sensibile del pene è: A. Il glande  B. L’asta C. I testicoli 3. La dimensione del pene influisce sul piacere sessuale della partner? A. Non in modo determinante  B. Sì, è fondamentale C. Dipende solo dalla posizione 4. Il pene può rompersi? A. Sì, si chiama frattura del pene  B. No, è impossibile C. Solo se è molto lungo 5. L’eiaculazione precoce è: A. Una disfunzione trattabile  B. Un problema psicologico grave C. Sempre causata dalla partner 6. Durante l’erezione, il pene può aumentare di: A. Fino al doppio della lunghezza a riposo  B. Solo 2-3 cm C. Oltre 10 cm 7. La circoncisione influisce sulla sensibilità del pene? A. Sì, può ridurla  B. No, anzi la aumenta C. Solo nei primi mesi 8. Il pene è un muscolo? A. No, è un tessuto erettile  B. Sì, ha muscoli propri C. Solo in parte 9. Fare sesso frequentemente fa bene al pene? A. Sì, favorisce la salute vascolare  B. No, può causare usura C. Non ha alcun effetto 10. L’autoerotismo fa male al pene? A. No, è una pratica sana  B. Solo se fatto troppo spesso C. Sì, può renderlo insensibile RISPOSTE CORRETTE Le risposte corrette corrispondono tutte alla lettera A. 1. Qual è la media della lunghezza di un pene eretto secondo gli studi scientifici? ✅ A. Circa 13-14 cm (Studi internazionali indicano una media di circa 13,12 cm in erezione.) 2. Il punto più sensibile del pene è: ✅ A. Il glande (È ricco di terminazioni nervose ed è la parte più sensibile.) 3. La dimensione del pene influisce sul piacere sessuale della partner? ✅ A. Non in modo determinante (Il piacere sessuale della partner dipende da tanti fattori, inclusi emotività, comunicazione e stimolazione del clitoride, più che dalla dimensione del pene, e se proprio vogliamo parlare di dimensioni, parliamo allora della larghezza più che della lunghezza.) 4. Il pene può rompersi? ✅ A. Sì, si chiama frattura del pene (È una lesione rara ma reale, della tunica albuginea durante un’erezione.) 5. L’eiaculazione precoce è: ✅ A. Una disfunzione trattabile (È un disturbo sessuale comune e può essere affrontato con terapia sessuologica o farmacologica.) 6. Durante l’erezione, il pene può aumentare : ✅ A. Fino al doppio della lunghezza a riposo (Molti peni raddoppiano le dimensioni in erezione, ma l’aumento può variare da individuo a individuo: in alcuni casi il pene in erezione rimane più o meno uguale alle dimensioni abituali) 7. La circoncisione influisce sulla sensibilità del pene? ✅ A. Sì, può ridurla (La rimozione del prepuzio riduce la sensibilità tattile, anche se l’effetto varia.) 8. Il pene è un muscolo? ✅ A. No, è un tessuto erettile (È costituito da corpi cavernosi e spugnosi, che si riempiono di sangue: non è un muscolo.) 9. Fare sesso frequentemente fa bene al pene? ✅ A. Sì, favorisce la salute vascolare (Rapporti regolari possono favorire la circolazione e ridurre il rischio di disfunzioni erettili.) 10. L’autoerotismo fa male al pene? ✅ A. No, è una pratica sana (Se vissuta senza eccessi o sensi di colpa, è parte normale e salutare della sessualità.) PROFILI 🔍 Sei un esperto/a di anatomia e miti (8–10 risposte corrette) Conosci bene l’anatomia e sei informato/a su ciò che è mito e ciò che è realtà. Parli di sesso con consapevolezza e spirito critico. Hai probabilmente letto, ascoltato e sperimentato in modo attento, contribuendo anche a una visione più sana e libera della sessualità maschile. 🌱 Hai una buona base, ma puoi ancora crescere (5–7 risposte corrette) Hai una conoscenza abbastanza solida, ma c’è ancora qualche leggenda che rischia di trarti in inganno. Sei sulla buona strada: informarti, leggere e parlare con esperti/e può aiutarti a sfatare gli ultimi dubbi e ad avere una visione ancora più completa. ❌ Attenzione: ti fidi troppo dei miti (0–4 risposte corrette) Molte delle tue risposte rivelano quanto i falsi miti possano essere radicati. Ma niente paura: è sempre possibile informarsi, scoprire e imparare qualcosa di nuovo. Il primo passo è stato fatto con questo quiz. Ora hai la curiosità dalla tua parte: usala! Dr. Walter La Gatta Immagine Foto di Anna Tarazevich [...] Read more...
Marzo 21, 2025Luce e visione: neurofisiologia e psicologia La percezione visiva è un processo complesso che inizia con la cattura della luce da parte dell’occhio e termina con l’elaborazione dell’informazione nel cervello. La luce non solo consente di vedere il mondo circostante, ma influenza anche numerosi processi cognitivi ed emotivi. In questo articolo cercheremo di comprendere i meccanismi neurofisiologici della visione, il ruolo della luce nelle funzioni biologiche e le numerose implicazioni psicologiche della percezione luminosa. Cosa è la luce? La luce è una radiazione elettromagnetica con lunghezze d’onda comprese tra circa 400 e 700 nanometri, il range visibile per l’occhio umano. Quando la luce colpisce un oggetto, parte di essa viene assorbita e parte riflessa; l’occhio percepisce la luce riflessa e la trasforma in segnali neurali. Come viene intercettata la luce dall’occhio? In questo modo: Cornea e cristallino: focalizzano la luce sulla retina. Iride e pupilla: regolano la quantità di luce in ingresso. Retina: contiene fotorecettori (coni e bastoncelli) che trasformano la luce in segnali elettrici. Nervo ottico: trasmette i segnali al cervello per l’elaborazione dell’immagine. Cosa sono i coni e i bastoncelli? I coni sono responsabili della visione dei colori e operano in condizioni di elevata luminosità, mentre i bastoncelli sono più sensibili alla luce debole e permettono la visione notturna. Quale è il processo neurofisiologico della visione? Dopo che i fotorecettori della retina hanno trasformato la luce in segnali elettrici, questi vengono inviati alla corteccia visiva primaria (V1) attraverso il nervo ottico e il corpo genicolato laterale del talamo. Qui inizia l’elaborazione delle informazioni relative a contrasto, forma e movimento. Le aree visive superiori, come la corteccia temporale inferiore (per il riconoscimento di oggetti e volti) e la corteccia parietale posteriore (per la localizzazione spaziale), collaborano per creare un’esperienza visiva coerente. In cosa consiste la sensazione luminosa? La sensazione luminosa è innescata dai fotoni che cadono sulla retina. Tuttavia ciò che vediamo non sono le distribuzioni dei fotoni nelle immagini sulla retina, ma ciò che risulta dall’elaborazione di queste immagini a livello del sistema nervoso centrale. Dunque, noi non vediamo la materia come potrebbe essere descritta da un fisico, ma l’interpretazione che di essa danno i nostri neuroni. Vi sono neuroni specializzati per distinguere l’orientamento degli stimoli, altri neuroni per il colore, altri per gli indizi della profondità, altri per il movimento e così via per le varie caratteristiche dello stimolo visivo. Se una certa classe di neuroni venisse ipoteticamente distrutta in un individuo, ad esempio per cause patologiche, quella data caratteristica non potrebbe essere più percepita, anche se presente all’osservazione di un’altra persona che non avesse la stessa deficienza neurologica. La luce regola anche i ritmi circadiani? Oltre alla funzione visiva, la luce regola i ritmi circadiani attraverso i fotorecettori retinici non visivi (cellule gangliari fotosensibili), che influenzano la produzione di melatonina. L’esposizione alla luce naturale al mattino favorisce la veglia, mentre la luce artificiale serale può disturbare il ciclo sonno-veglia. La luce ha anche implicazioni psicologiche? Si. La luce non è solo un fattore fisiologico, ma anche psicologico: Luce e umore: l’esposizione alla luce solare è correlata a livelli più elevati di serotonina, influenzando positivamente l’umore. La carenza di luce naturale, tipica dei mesi invernali, è associata al disturbo affettivo stagionale (SAD). Colori e percezione: la luce influenza il modo in cui percepiamo i colori e l’ambiente circostante. Toni caldi (rossi, arancioni) possono creare un senso di comfort, mentre quelli freddi (blu, verdi) tendono a trasmettere calma o freddezza emotiva. Illuminazione e prestazioni cognitive: studi dimostrano che una luce più intensa favorisce la concentrazione, mentre un’illuminazione soffusa stimola la creatività. C’è una relazione fra linguaggio e visione? Al linguaggio viene riconosciuto di essere il mezzo più importante a disposizione della specie umana: sicuramente esso ha una funzione psichica fondamentale, per la comunicazione dell’informazione e la trasmissione della cultura. La visione tuttavia rappresenta il sistema cognitivo da cui deriva l’informazione più originale e creativa, successivamente codificata dal linguaggio. Il vedere e il visibile sono la stessa cosa? Se avessimo un cervello diverso e più precisamente un sistema visivo diverso, vedremmo il mondo in modo diverso. Tra il vedere e il visibile, cioè tra la visione e la luce, non vi è identità. Che relazione c’è fra colore e luminosità? La luce non è colorata: dà origine a sensazioni di luminosità e colore, ma solo in combinazione con un occhio e un sistema nervoso adeguati. La visione del colore è la capacità di un organismo o di una macchina di distinguere gli oggetti sulla base della lunghezza d’onda (o frequenza) della luce che questi riflettono, emettono, o trasmettono. I colori possono essere misurati e quantificati in vari modi; la percezione dei colori di una persona è un processo soggettivo nel quale il cervello risponde alle stimolazioni prodotte quando la luce incidente reagisce con i diversi tipi di cellule coni presenti nell’occhio. Persone diverse possono vedere lo stesso oggetto illuminato o la stessa sorgente di luce in modi diversi. La luminosità è una funzione non solo dell’intensità della luce che cade su una data regione della retina in un determinato momento, ma anche dell’intensità della luce a cui la retina è stata soggetta nel recente passato e delle intensità della luce che cadono su altre regioni della retina. Si tratta dunque di una sensazione soggettiva. La sensibilità dell’occhio umano varia a seconda della lunghezze d’onda della luce emessa. Il flusso luminoso differisce dal flusso radiante, il quale è invece la misura della potenza totale di radiazione elettromagnetica emessa. Il flusso luminoso viene spesso usato come una misura oggettiva della potenza utile emessa da una sorgente luminosa, (ad esempio questo valore è di solito riportato sulla confezione delle lampadine). Chi ha iniziato per primo a studiare questi concetti? Euclide. La sua descrizione della visione è concettualmente ancora valida, anche se imprecisa: Euclide riteneva infatti che dall’occhio uscissero dei raggi che andavano a illuminare e descrivere gli oggetti della realtà del mondo esterno. Oggi sappiamo che il flusso dell’informazione avviene in direzione opposta a quella prospettata da Euclide, ma più o meno con le modalità da lui indicate. Come viene studiata oggi la visione? Oggi la visione viene studiata come una funzione complessa del comportamento, basata su strutture nervose specifiche delle specie animali, e non si confonde con lo studio delle proprietà delle radiazioni e della materia. Quale è la natura della luce? Negli ultimi 300 anni ci sono state due teorie rivali sulla natura della luce. Isaac Newton (1642-1727) sosteneva che la luce fosse una sequenza di particelle (corpuscoli) emesse in tutte le direzioni, mentre Christiaan Huygens (1629-93) sosteneva che la luce fosse come un’onda che si propaga (in maniera del tutto simile alle onde del mare o a quelle acustiche) in un mezzo, chiamato etere, che si supponeva pervadere tutto l’universo ed essere formato da microscopiche particelle elastiche. Oggi per luce intendiamo la porzione dello spettro elettromagnetico visibile dall’occhio umano, approssimativamente compresa tra 400 e 700 nanometri di lunghezza d’onda, ossia tra 790 e 435 THz di frequenza. Questo intervallo coincide con il centro della regione spettrale della luce emessa dal Sole che riesce ad arrivare al suolo attraverso l’atmosfera. I limiti dello spettro visibile all’occhio umano non sono uguali per tutte le persone, ma variano soggettivamente e possono raggiungere i 720 nanometri, avvicinandosi agli infrarossi, e i 380 nanometri avvicinandosi agli ultravioletti. La presenza contemporanea di tutte le lunghezze d’onda visibili, in quantità proporzionali a quelle della luce solare, forma la luce bianca. A causa della velocità finita della luce e del ritardo nei messaggi nervosi che raggiungono il cervello, percepiamo sempre il passato. La nostra percezione del sole, ad esempio, è in ritardo di oltre 8 minuti: tutto ciò che sappiamo del più lontano oggetto visibile a occhio nudo (la nebulosa di Andromeda) è così obsoleto che lo vediamo come era un milione di anni prima che gli uomini apparissero sulla Terra. La luce è indispensabile agli esseri viventi? Quasi ogni essere vivente è sensibile alla luce. Le piante hanno bisogno dell’energia della luce, alcune si muovono per seguire il sole. Gli animali vedono nello stesso modo degli esseri umani Non si deve credere che le funzioni visive migliorino lungo la scala filogenetica con un massimo di perfezione ed efficienza nella specie umana: negli animali spesso le cose vanno molto meglio. Vi sono animali che hanno la stessa capacità dell’uomo di percepire ad esempio i colori e vi sono animali superiori all’uomo per altre proprietà come l’acuità visiva. Dalle ricerche sui primati è stata avanzata l’ipotesi che la visione abbia avuto una funzione fondamentale nella loro evoluzione e nel loro adattamento all’ambiente. I primati predatori, dotati di occhi orientati frontalmente e capaci di convergere su uno stimolo, potevano facilmente individuare una preda, valutarne la distanza con il meccanismo della visione binoculare della distanza e prepararsi con successo all’attacco. I primati erbivori, che si cibavano di frutta, traevano un grande vantaggio dalla capacità di riconoscere i colori o di ricordare il luogo dove raccoglierli. Anche la comunicazione sociale viene facilitata nei primati dalla segnalazione visiva delle espressioni della faccia. Come vedono i bambini? Nelle prime settimane di vita il bambino mostra un intenso interesse per gli stimoli visivi. E’ fuori di dubbio che l’esperienza visiva del mondo esterno è un fattore necessario per un normale sviluppo e affinamento delle proprietà innate, che riguardano la distinzione della luce dal buio, la percezione del movimento e dei colori. Il bambino non è capace di percepire le forme, ma può discriminare fra uno stimolo omogeneo e uno non omogeneo, un disegno o una figura. Per studiare la percezione delle forme nei neonati si mostrano al bambino due stimoli diversi e si registra la frequenza e la durata di fissazione degli occhi su ciascuno dei due. È stato dimostrato che i neonati riescono a coordinare i movimenti oculari entro poche settimane dalla nascita. Essi preferiscono anche oggetti solidi (tridimensionali) a rappresentazioni piatte degli stessi oggetti; di conseguenza, si presume che la sensazione della profondità sia innata. Nelle prime settimane di vita il bambino sa già localizzare gli oggetti visivamente, sa seguire la traiettoria di un oggetto che si muove, sa distinguere una figura omogenea da un disegno, si difende con le mani se gli si proietta davanti un’ombra che si allarga progressivamente e distingue l’orientamento degli oggetti. In cosa consiste l’attenzione visiva? L’elaborazione dell’informazione visiva è un insieme complesso di stadi e processi che si collocano in una dimensione temporale. L’attenzione si può definire come una scelta attiva degli stimoli dell’ambiente ai quali rispondiamo. Il caso più notevole dell’attenzione visiva è l’attenzione foveale rispetto a quella periferica. Ogni volta che vogliamo percepire con precisione uno stimolo spostiamo la fovea della retina, dove c’è il massimo di acuità visiva, verso lo stimolo. In periferia non manca l’attenzione, ma è diversa da quella foveale. Esempio: stiamo guardando la televisione, ma qualche cosa di nuovo è accaduto di fianco, qualcuno ci sta porgendo qualche cosa. Qui ha operato l’attenzione periferica che ci ha permesso di rilevare da uno sfondo relativamente omogeneo la comparsa di uno stimolo nuovo. Ci voltiamo e vediamo con precisione che ci stanno offrendo una sigaretta. Il riconoscimento dello stimolo è dovuto alla focalizzazione della fovea su di esso e quindi allo spostamento dell’attenzione da periferica a foveale, mediante un movimento degli occhi e/o della testa. La distinzione tra attenzione foveale e periferica è per così dire spaziale. Vi sarebbero altre due forme di attenzione di carattere più propriamente temporale. A un processo ‘preattentivo’, come è stato chiamato, seguirebbe un’attenzione focale. La preattenzione ha il ruolo di estrarre, segmentare lo stimolo rispetto agli altri stimoli, di estrarre la figura dallo sfondo (Gestalt). Generalmente sono state studiate le situazioni di ‘ricerca visiva’ in cui l’osservatore ha il compito di ricercare in un vasto gruppo di stimoli lo stimolo-obiettivo. E’ un po’ la situazione in cui ci troviamo quando aspettiamo un amico alla stazione all’inizio del binario. Tante persone ci passano davanti, ma non stiamo a guardarle una per una con precisione; è come se dessimo ‘occhiate veloci’ passando da una all’altra fino a quando non riconosciamo la faccia amica. Se alla stazione di Shangai aspettiamo un amico italiano, il compito di riconoscerlo è più facile che non alla stazione Termini di Roma, fra tanti italiani. Cosa è il pensiero visivo? E’ nota l’affermazione di A. Einstein di aver utilizzato scarsamente il pensiero verbale nelle sue rivoluzionarie scoperte nel campo della fisica. Molti scienziati famosi hanno riferito che spesso hanno avuto delle ‘intuizioni’ immediate relative alla risoluzione di un problema e poi di averle trascritte, comunicate mediante il codice verbale. Queste intuizioni sarebbero delle ‘visioni‘ esplosive, globali, sintetiche che poi lo scienziato spezzetta, traduce in parole e numeri. Il grande studioso della visione, il fisico e fisiologo H. von Helmholtz, scrisse che le immagini delle impressioni puramente sensoriali possono essere usate come elementi delle combinazioni di pensiero senza che sia necessario oppure anche possibile descriverle a parole. Tra gli psicologi che negli anni Settanta hanno richiamato l’interesse sui processi non verbali, visivi, immaginativi, intuitivi, R. N. Shepard ha compiuto una disamina particolareggiata della funzione di tali processi nelle opere creative di scienziati, artisti, musicisti. Egli ha indicato alcune costanti del ‘pensiero produttivo’ o della ‘Immaginativa mentale’. Molto suggestiva è l’osservazione che nella loro ‘produzione’ gli scienziati tendono a una descrizione dei fenomeni dell’universo e delle leggi che li governano che sia semplice, geometrica, simmetrica, rappresentabile visivamente in modo immediato ed elegante formalmente. Molte formule della fisica moderna hanno questa semplicità e pregnanza visiva, ma più esemplificative sono le soluzioni visive comparvero a scienziati come il chimico F.A. Kekulé sulla struttura dei composti organici o a J.D. Watson e F. Crick sulla struttura del DNA. Da cosa derivano i disturbi della vista? I disturbi della vista sono un grave problema di salute pubblica, perché causano disabilità, sofferenza e perdita di produttività. È stato ormai riconosciuto con chiarezza che la perdita della vista può generare vari gradi di sofferenza psichica, indubbiamente maggiori del disagio derivante da altre forme di disabilità sensoriale. I disturbi della vista derivano da problemi dello sviluppo, crescita non coordinata degli elementi dell’occhio, processi patologici come infiammazione e degenerazione, e altri cambiamenti nell’anatomia e nella fisiologia dell’occhio. Questi disturbi colpiscono le persone riducendo l’acuità visiva, i campi visivi, la visione dei colori o la stereopsi. Fortunatamente, la maggior parte dei disturbi della vista può essere curata, anche se non guarita. Almeno il 90% di tutti i problemi che le persone hanno con gli occhi derivano da errori di rifrazione, strabismo e ambliopia. Meno del 10% dei problemi alla vista derivano da malattie come la cataratta senile, la degenerazione maculare senile, la retinopatia diabetica o il glaucoma. Nella popolazione di oltre 45 anni, praticamente tutti hanno problemi di vista.  La cecità è definita come acuità visiva (AV) inferiore a 20/200 o meno nell’occhio migliore con la migliore correzione oftalmica o campi visivi inferiori a 20 gradi di diametro. La cecità può essere assoluta, senza percezione della luce. Dati globali sulla cecità suggeriscono che la cataratta, l’errore di rifrazione e il tracoma sono le cause più importanti di cecità nei paesi in via di sviluppo, mentre la degenerazione maculare senile è la causa principale negli Stati Uniti e nelle economie di mercato consolidate. La relazione tra stato socioeconomico inferiore e maggiore tasso di cecità non è ambigua: questo dato è chiaramente indicato dalla maggiore prevalenza di cecità nei paesi più poveri del mondo rispetto a quelli sviluppati. Cosa significa perdere la vista? Numerosi studi hanno esaminato l’impatto emotivo esercitato dalla perdita della vista. Una tipica reazione del paziente alla perdita della vista è la depressione di varia durata e gravità, in base alle caratteristiche personali sottostanti del paziente e allo stato socioeconomico. Nel 90% dei casi questi pazienti manifestano segni di depressione, con insonnia, perdita di appetito, ritiro sociale, perdita di autostima, pianto e ideazione suicidaria. La situazione peggiora se i sintomi psicopatologici diventano cronici. Cosa sono le allucinazioni? La percezione può essere distorta. La situazione più drammatica la si ha quando con la fantasia viene creato un intero mondo, che poi viene scambiato per realtà. Questo può accadere come effetto collaterale indotto da farmaci, o nelle malattie mentali. Le allucinazioni sono simili ai sogni. Possono essere visive o coinvolgere qualsiasi altro senso. Possono persino combinare diversi sensi, quando l’impressione della realtà è travolgente. Sogni e allucinazioni hanno sempre suscitato meraviglia e qualche volta hanno perfino influenzato le decisioni, sia a livello personali che politico. Per i fisiologi, i sogni e le allucinazioni sono dovuti all’attività spontanea del cervello, non provocata dagli stimoli sensoriali. I tumori cerebrali e l’aura che precede le crisi epilettiche possono dare esperienze visive. In questi casi, il sistema percettivo è attivato non dai normali segnali dai fotorecettori, ma dalla stimolazione che è più centrale. Le allucinazioni si verificano spesso nelle persone che vivono isolate, quando la stimolazione sensoriale non è esistente, e il cervello produce molte fantasie. È possibile che questo sia ciò che accade nella schizofrenia, quando il mondo esterno e l’individuo sono poco in contatto. Testo consultato: NCBI Dr. Walter La Gatta Immagine: Pixabay [...] Read more...
Febbraio 8, 2025Innamoramento e attrazione fisica L’innamoramento è un fenomeno che coinvolge aspetti biologici, psicologici e sociali. Durante questa fase, il cervello rilascia una serie di neurotrasmettitori, come la dopamina, l’ossitocina e la serotonina, che influenzano la percezione dell’altro e modulano le reazioni emotive e comportamentali. Cerchiamo allora di capire meglio come una persona innamorata percepisce le persone dell’altro sesso. Percezione delle persone dell’altro sesso Uno degli effetti più rilevanti dell’innamoramento è la focalizzazione dell’attenzione sulla persona amata. Studi neuroscientifici dimostrano che le aree cerebrali associate alla ricompensa e al piacere si attivano selettivamente in risposta a immagini o stimoli legati alla persona amata. Questo può portare a una ridotta sensibilità agli stimoli provenienti da altre persone dell’altro sesso, modificando la percezione dell’attrattiva di potenziali partner alternativi. Attrazione fisica e fedeltà Ricerche nel campo della psicologia evoluzionistica suggeriscono che l’innamoramento favorisce la fedeltà e la monogamia. La produzione elevata di ossitocina e vasopressina contribuisce al rafforzamento del legame di coppia e alla riduzione dell’attrazione verso altri individui. Tuttavia, ciò non significa che l’attrazione fisica per altre persone scompaia del tutto: alcuni studi indicano che, pur mantenendo un attaccamento emotivo intenso, l’individuo innamorato può percepire l’attrattiva di altre persone, ma tende a svalutarle rispetto alla persona amata. Differenze individuali La variabilità individuale gioca un ruolo importante in questo processo. Fattori come l’autocontrollo, le esperienze passate e la personalità influenzano il modo in cui una persona innamorata risponde agli stimoli esterni. Ad esempio, individui con un alto livello di attaccamento sicuro tendono a essere meno sensibili alle tentazioni esterne, mentre coloro con uno stile di attaccamento insicuro possono essere più inclini a notare e rispondere all’attrattiva di altre persone. Dr. Walter La Gatta Immagine Foto di Jolene Engelbrecht [...] Read more...
Gennaio 29, 2025Figli adolescenti: come gestirli L’adolescenza è una fase di trasformazione intensa, sia per i ragazzi che per i genitori. Questo periodo, caratterizzato da cambiamenti fisici, emotivi e sociali, può generare conflitti e incomprensioni. Vediamo alcune strategie utili ai genitori per affrontare al meglio questa fase. Quale periodo della vita riguarda l’adolescenza? L’adolescenza comincia nel periodo della pubertà, ma la sua conclusione tende ad essere spostata sempre più in avanti: fino ai 30 anni circa. Questo spostamento in avanti è un fenomeno più socio-culturale che biologico. L’atteggiamento psicologico adolescenziale rimane infatti fino a che l’individuo non raggiunge l’autonomia, il che oggi avviene, appunto, intorno ai trenta anni. Se la società primitiva era molto vicina al fatto biologico (come un cucciolo, che diventa adulto quando può riprodursi), la complessa società attuale rispetta canoni del tutto diversi da quelli dettati dalla natura. Quali sono le principali fasi dell’adolescenza? 12-15 anni Appaiono le caratteristiche sessuali secondarie: crescono i peli del corpo, aumenta la sudorazione e la produzione di grasso nei capelli e nella pelle. Ragazze – sviluppo del seno e delle anche, inizio delle mestruazioni; Ragazzi – crescita dei testicoli e del pene, “sogni bagnati”, abbassamento della voce,  aumento di altezza e peso. – Preoccupazione per i cambiamenti fisici e critica dell’aspetto (dismorfofobia); – Ansia su cambiamenti sessuali secondari; – I pari utilizzati come punti di riferimento  (confronto tra sé e coetanei) 15 – 18 anni Appaiono le caratteristiche sessuali secondarie: Si raggiunge il 95% dell’altezza degli adulti; La crescita fisica rallenta nelle ragazze, continua per i maschi La pubertà è completata. – Minore preoccupazione per i cambiamenti fisici, ma maggiore interesse per l’estetica personale; – Attività fisica molto intensa, alternata a letargia. Quali sono i comportamenti tipici  durante l’adolescenza? L’adolescenza è un periodo che presenta molti cambiamenti nel corpo, nel modo di relazionarsi con gli altri, nelle amicizie. I ragazzi in questo periodo avvertono un forte bisogno di indipendenza e questo comporta molte insicurezze e malumori. La caratteristica principale del comportamento degli adolescenti sono i loro particolari rituali, i luoghi di ritrovo, i gerghi, gli atteggiamenti di ribellione, il bisogno di appartenenza al gruppo dei pari e il desiderio di maggiore autonomia. Per i genitori, è fondamentale comprendere che tali comportamenti non sono necessariamente un rifiuto della famiglia, ma esprimono un naturale bisogno di evoluzione: sono comportamenti che hanno lo scopo di costruire una identità personale più sicura e al tempo stesso differente da quella dei genitori o dell’ambito familiare. Che relazioni ci sono con gli amici in questo periodo? Sebbene nell’adolescenza si possano vivere molti episodi di bullismo, la solidarietà fra gli amici è in genere molto forte e questo aiuta i ragazzi in questo percorso di cambiamento, che comporta il distacco dalla famiglia e dal senso di protezione cui erano abituati. Quanto conta l’esperienza scolastica? La scuola media difficilmente viene ricordata con affetto dalla maggior parte delle persone: la scuola superiore è invece vissuta in modo migliore, anche perché quando i ragazzi frequentano le superiori i tempi sono ormai maturi per iniziare veramente a definire se stessi nella relazione con i pari e con gli insegnanti. I più maturi iniziano già in questo periodo  a contemplare realisticamente dei possibili progetti di vita. Quali competenze vengono acquisite in questo periodo? Nell’adolescenza si acquisiscono le competenze che rendono la persona adulta; in particolare si iniziano a padroneggiare le abilità sociali, sviluppando relazioni interpersonali che diventano sempre più profonde. Quale è il maggiore bisogno sentito dagli adolescenti? Il maggior bisogno degli adolescenti è sentirsi normali, cioè come gli altri ragazzi della propria età. I genitori possono essere d’aiuto, svolgendo con attenzione il proprio ruolo, di rassicurazione e di indirizzo. Come è in questo periodo il rapporto genitori-figli? In genere è piuttosto turbolento. Durante l’adolescenza, tuttavia, i ragazzi hanno bisogno dei loro genitori più che mai. Ai genitori è richiesta, dunque un po’ di pazienza, affinché, nonostante gli scontri sulle opinioni o sui comportamenti, i ragazzi possano continuare ad avere piacevoli attività familiari, ma soprattutto poter contare sui genitori ogni volta che ne avranno bisogno. Quali sono i comportamenti tipicamente errati dei genitori? Non è sempre facile rapportarsi con i giovani e l’adulto che abbia in mente di farlo, deve anzitutto lavorare su se stesso, per evitare che il rapporto con l’adolescente faccia scattare in lui dei meccanismi controtransferali, dovuti al ricordo e alle ambiguità tuttora irrisolte del proprio vissuto adolescenziale. I più comuni comportamenti errati, contrapposti fra loro, sono i seguenti : – Svalorizzare l’adolescente, cioè trattarlo da incompetente: questa è una forma di autoritarismo dovuto ad ansia e insicurezza personale; – Fare il complice dell’adolescente. L’adolescente non ama gli adulti che si atteggiano a ragazzoni non cresciuti ed in genere vive queste figure come patetiche, esigendo una certa distanza da loro. – Fare confronti con gli altri: ogni ragazzo ha il proprio ritmo di crescita e le proprie peculiarità. – Dare punizioni eccessive: piuttosto che punire, è meglio spiegare le conseguenze naturali di alcune azioni e premiare i comportamenti positivi. Quali sono i comportamenti corretti dei genitori di figli adolescenti? Sono i seguenti: – Aiutare i ragazzi nel loro distacco, facendo il possibile per non farli sentire in colpa per questo loro bisogno di allontanamento; – Rassicurarli (dilatando gli elementi di sicurezza già presenti); – Fornire loro tutte le informazioni di cui hanno bisogno, anche sulla vita sessuale; – Prestare sempre ascolto, consigliandoli senza giudicare. I ragazzi devono sentirsi liberi di esprimere emozioni e opinioni senza il timore di essere giudicati. – Mantenere la calma: reagire con rabbia può alimentare tensioni, mentre un atteggiamento sereno facilita la risoluzione dei problemi. – Esprimere le proprie emozioni: raccontare le proprie esperienze adolescenziali può aiutare i figli a sentirsi compresi. – Creare occasioni di dialogo spontaneo, come durante i pasti o le attività condivise. Mantenere una comunicazione aperta e un dialogo sincero e reciprocamente rispettoso. – Trovare compromessi: dare loro voce nelle decisioni può ridurre le opposizioni. –  Stabilire regole precise, pur con una certa flessibilità, per aiutare gli adolescenti a sviluppare senso di responsabilità e rispetto. – Definire insieme le regole: coinvolgere i ragazzi nelle decisioni da prendere li aiuta a sentirsi responsabili e rispettati. – Essere coerenti con quanto si è stabilito insieme, per non creare confusione e insicurezza. – Adattare le regole alla crescita dei ragazzi: con il tempo, alcune restrizioni devono essere allentate per favorire la loro autonomia. – Riconoscere le competenze dell’adolescente: l’autostima di un adolescente si sviluppa anche attraverso il riconoscimento delle proprie competenze e la possibilità di sperimentare: – Incoraggiare le loro passioni: sport, arte, musica e altre attività possono aiutarli a scoprire talenti e interessi. Quali sono le tecniche di comunicazione da utilizzare nel cercare di aiutarli? A volte i genitori vorrebbero fare qualcosa per i figli, ma si sentono respinti. Ecco qualche suggerimento di comunicazione ben posta quando l’adolescente pone un problema: 1. Spiegami bene … Cominciare così perché l’adolescente si spieghi anche con se stesso. La chiarezza dell’eloquio è spesso anche chiarezza di idee e progetti. L’effetto del parlare è quello di guardarsi dentro, operazione che gli adolescenti non sono ancora abituati a fare molto spesso, e che gli servirà per crescere come persone. 2. Cosa si potrebbe fare per risolvere il tuo problema? Insegnare al ragazzo ad esplorare tutte le vie possibili per la soluzione del problema, per poi soffermarsi sulle ipotesi più praticabili, cercando insieme le strategie di azione. 3. Tu cosa vorresti fare ? Questa domanda serve per far capire all’adolescente che si vuole tenere conto anche delle sue opinioni e si è pronti a discuterne insieme. 4. Evitare di proporsi come esempio di saggezza vivente. Occorre aiutare l’adolescente a capirsi meglio, per accrescere la stima di sé e trovare il coraggio di risolvere i suoi problemi da solo ed in modo efficace. Non ha alcun senso proporsi come persona che non sbaglia mai, rafforzando i sensi di inadeguatezza dell’adolescente; 5. Evitare che i consigli diventino imposizioni. Lasciare ragionare l’adolescente sul proprio problema, sostenerlo, aiutarlo per quello che è possibile, lasciando però che cominci a prendere le sue decisioni da solo, assumendosene le responsabilità. Questi consigli possono aiutare a migliorare il clima familiare e mettere l’adolescente nella condizione di sentire di potercela fare da solo, il che accresce la sua autostima e gli/le permette di crescere come persona, non solo in termini di età. Quando chiedere aiuto? Se un adolescente manifesta segnali di disagio persistenti, come isolamento, aggressività o calo del rendimento scolastico, può essere utile consultare uno/a psicologo/a o uno/a specialista dell’età evolutiva. Un supporto professionale può aiutare a comprendere meglio i loro bisogni e a trovare strategie efficaci per affrontare eventuali difficoltà. Dr. Walter La Gatta Immagine Foto di Elijah O’Donnell [...] Read more...
Gennaio 2, 2025Risata, pianto e altre emozioni intense Nell’Odissea di Omero, un gruppo di uomini ride in modo incontrollabile poco prima di essere ucciso da Odisseo. Questa scena illustra come, già 3000 anni fa, si notasse la somiglianza tra la risata e il pianto quando le emozioni raggiungono un livello di intensità estrema. Questo spunto introduce la possibilità che tali espressioni siano legate a risposte motorie profonde e automatiche. Riflessi difensivi e protezione corporea Studiando i riflessi di protezione corporea nei primati, come il riflesso di sussulto e altri movimenti di blocco e ritiro (Graziano, 2018), attraverso registrazioni video e misurazioni muscolari, si sono osservate somiglianze tra questi riflessi e le azioni coinvolte nel sorridere, ridere e piangere (Graziano, 2008; Graziano, de Vignemont, Serino, Wong & Farnè, 2021). L’ipotesi è che le risposte difensive abbiano costituito un punto di partenza evolutivo per molte espressioni emotive. Vi sono due principali tipi di movimenti difensivi: 1. Riflesso di sussulto Questo riflesso è una reazione istintiva e automatica a stimoli improvvisi, come un rumore forte o un movimento rapido vicino al viso. Studi pionieristici di Strauss negli anni ’20 (Strauss, 1929) hanno documentato i movimenti specifici associati a questa risposta: – Contrazione della muscolatura attorno agli occhi, causando un battito di ciglia e una piega protettiva della pelle. – Sollevamento delle guance e arricciamento del labbro superiore, che porta all’esposizione accidentale dei denti. – Abbassamento della testa e sollevamento delle spalle, per proteggere il collo. – Curvatura in avanti del busto e piegamento delle gambe per ridurre la superficie corporea esposta. – Contrazione delle braccia verso l’interno, con le mani che si portano a protezione dell’addome o del viso. Il riflesso di sussulto è estremamente veloce: i muscoli attorno agli occhi iniziano a contrarsi entro 5 millisecondi (Davis & Eaton, 1984; Koch, 1999). Questo riflesso è regolato dal tronco encefalico, che coordina la risposta senza coinvolgere aree superiori del cervello. Tuttavia, l’intensità dello sussulto varia in base allo stato emotivo: individui calmi mostrano una reazione minima, mentre soggetti ansiosi o sotto stress producono risposte amplificate (Grillon, 2008; Lang, Bradley & Cuthbert, 1990). 2 Risposta difensiva complessa e il concetto di spazio peripersonale A differenza del riflesso di sussulto, questa seconda risposta difensiva è più complessa e dipende dalla corteccia cerebrale. Coinvolge la rappresentazione neurale di un margine di sicurezza attorno al corpo, noto come spazio peripersonale (de Vignemont & Iannetti, 2015; di Pellegrino & Làdavas, 2015). I neuroni peripersonali, studiati nei macachi e confermati negli esseri umani (Graziano et al., 1994; Rizzolatti et al., 1981), rispondono a stimoli che si avvicinano alla pelle, attivando una serie di movimenti protettivi. Per esempio, la stimolazione elettrica di specifici neuroni nel cervello dei macachi evoca azioni difensive precise: – Chiusura immediata delle palpebre. – Contrazione dei muscoli attorno agli occhi, causando strabismo protettivo. – Sollevamento della pelle sulle guance e arricciamento delle labbra, esponendo i denti. – Retrarre le orecchie (nei macachi) per proteggere il padiglione auricolare. – Spostamento della testa lontano dalla minaccia. – Sollevamento delle spalle e delle mani per proteggere il viso. Questi movimenti difensivi possono essere attivati anche in soggetti anestetizzati, dimostrando che sono risposte neurali automatiche (Cooke & Graziano, 2004). L’evoluzione delle espressioni emotive umane L’elemento centrale dell’imitazione difensiva è l’idea che questi riflessi, inizialmente sviluppati per la protezione fisica, abbiano progressivamente assunto una funzione comunicativa. In altre parole, alcuni movimenti difensivi potrebbero essersi trasformati in segnali sociali. Il sorriso e la risata L’esposizione accidentale dei denti superiori, inizialmente parte di un riflesso difensivo, potrebbe essersi evoluta in un segnale sociale positivo. Un’espressione originariamente legata alla paura o alla sottomissione potrebbe essere stata reinterpretata come un segno di affiliazione e gioco sociale. Due principali tipi di riflessi proteggono la superficie corporea. La risposta di sussulto, mediata sottocorticalmente, si attiva entro 5 millisecondi dalla percezione di una minaccia. La risposta protettiva peripersonale, invece, dipende da una rete corticale di neuroni peripersonali e si attiva entro 30 millisecondi. Questi due meccanismi operano in sinergia e costituiscono la risposta iniziale involontaria di protezione del corpo. Azioni difensive e segnali sociali Le azioni difensive possiedono tre caratteristiche che le rendono rilevanti nell’evoluzione dei segnali sociali (Graziano et al., 2021). Innanzitutto, sono facilmente osservabili dagli altri individui. In secondo luogo, trasmettono informazioni sullo stato interno di un animale, come lo stress e l’ansia. Infine, essendo cruciali per la sopravvivenza, non possono essere soppresse senza rischi. Queste caratteristiche si applicano sia ai riflessi di sussulto a breve latenza che ai meccanismi dello spazio peripersonale a lunga latenza. Consideriamo due scimmie ipotetiche, A e B. Se la scimmia A viene attaccata dalla scimmia B, reagirà inizialmente con un riflesso di sussulto, seguito da movimenti difensivi più specifici, come il blocco e il ritiro. La reazione difensiva sarà visibile alla scimmia B, e la sua intensità può variare: una risposta lieve può manifestarsi con tensione muscolare e increspature della pelle intorno agli occhi, mentre una risposta più marcata può coinvolgere l’intero viso e comportare movimenti come abbassarsi o curvarsi. La scimmia B può sfruttare queste informazioni. Sebbene la risposta difensiva sia un riflesso, la sua intensità è modulata dallo stato emotivo dell’animale, dalle esperienze recenti e dalla percezione del rischio. Una reazione difensiva debole indica che la scimmia A è in uno stato di bassa paura e probabilmente ha un alto status gerarchico. Al contrario, una reazione più intensa segnala stress e vulnerabilità, suggerendo una posizione sociale inferiore o una storia di sconfitte. In questo modo, la scimmia A sta involontariamente trasmettendo informazioni utili su di sé, creando le condizioni per l’evoluzione di un segnale sociale. L’evoluzione dei segnali negli animali è stata interpretata attraverso due teorie principali. Le teorie basate sulle informazioni suggeriscono che i segnali si evolvano per trasferire informazioni tra individui (Font & Carazo, 2010; Seyfarth et al., 2010; Slocombe & Zuberbühler, 2007). Al contrario, le teorie non basate sulle informazioni affermano che i segnali si evolvano per influenzare direttamente il comportamento degli altri (Dawkins & Krebs, 1978; Owren & Rendall, 1997; Rendall et al., 2009). Nel caso del comportamento difensivo, si possono ipotizzare due processi evolutivi: da un lato, la capacità di rispondere ai segnali informativi può essere vantaggiosa per l’evoluzione del ricevente; dall’altro, una volta che il ricevente ha sviluppato una risposta specifica, l’evoluzione può selezionare segnali che influenzano direttamente il comportamento dell’altro individuo. L’evoluzione del sorriso Una spiegazione ampiamente accettata dell’origine del sorriso lo collega a un segnale di sottomissione o affiliazione, noto come “mostra silenziosa dei denti” (Beisner & McCowan, 2014; De Marco & Visalberghi, 2007; Preuschoft, 1992; Thierry et al., 1989; von Hooff, 1962). Tuttavia, un’altra ipotesi suggerisce che il sorriso derivi da un riflesso difensivo esagerato. Se la scimmia B si avvicina minacciosamente alla scimmia A, questa può rispondere con una reazione difensiva ampia, segnalando il proprio status inferiore e riducendo la probabilità di un attacco. Se la scimmia B possiede un meccanismo neurale per rilevare tali segnali, potrebbe ridurre l’aggressività di fronte a una risposta difensiva pronunciata. Questo schema potrebbe aver favorito l’evoluzione di un segnale sociale specifico: un’espressione mimica difensiva, più visibile e prolungata rispetto a una semplice reazione riflessa. Nel tempo, questo comportamento potrebbe essersi raffinato in un’espressione sociale adattata a ridurre il conflitto. Negli esseri umani, il sorriso coinvolge principalmente i muscoli intorno agli occhi (sorriso di Duchenne), che si contraggono in modo simile a una reazione riflessa a una luce intensa. Questo suggerisce che il sorriso potrebbe essersi evoluto come un’imitazione amplificata di una risposta difensiva, divenendo un segnale sociale utile per attenuare l’aggressività negli altri. L’evoluzione della risata Anche la risata potrebbe avere origini simili. Le grandi scimmie mostrano una “faccia da gioco a bocca aperta” durante il gioco sociale, spesso accompagnata da suoni ripetitivi simili a sbuffi (Cordoni et al., 2016; Darwin, 1872; Henry & Herrero, 1974; Jolly, 1966; Palagi, 2008, 2009; Preuschoft, 1992; Ross et al., 2010; von Hooff, 1962). Negli scimpanzé, il solletico evoca una reazione simile a una risata umana. La risata intensa negli esseri umani include contrazioni muscolari intorno agli occhi, sollevamento delle guance, inclinazione del busto in avanti e suoni ritmici. Questi elementi ricordano una risposta difensiva esagerata e prolungata. Potrebbe dunque essersi evoluta come un segnale sociale per regolare l’interazione sociale e facilitare il gioco, rafforzando i legami interpersonali. L’origine della risata è stata oggetto di diverse ipotesi, con particolare attenzione all’interazione sociale, al gioco e al valore di ricompensa della risata. Si distinguono due tipi di risata: spontanea e volitiva. La prima si presume sia emersa milioni di anni fa, mentre la seconda rappresenterebbe un’evoluzione culturale della prima. Tuttavia, le teorie esistenti si concentrano prevalentemente sul suono vocale, trascurando gli aspetti fisici che accompagnano la risata. Una prospettiva alternativa suggerisce che la risata, in particolare quella evocata dal solletico, abbia avuto origine come un meccanismo difensivo durante il gioco di lotta. Nei mammiferi, il gioco di lotta affina le capacità motorie e di combattimento, ma richiede segnali sociali per evitare danni reali. Durante un attacco ludico, le reazioni difensive visibili del soggetto colpito possono segnalare sia la riuscita dell’attacco sia il rischio di oltrepassare una soglia critica. Con il tempo, l’evoluzione avrebbe modellato la risata come un’esagerazione di queste reazioni difensive, servendo a regolare il gioco e a rafforzare i comportamenti efficaci. La componente vocale della risata potrebbe essersi sviluppata per aumentarne l’efficacia comunicativa, permettendo di segnalare immediatamente all’altro giocatore l’intensità dell’interazione. Questo meccanismo avrebbe poi trovato applicazioni più ampie nei contesti sociali, diventando uno strumento di rinforzo positivo o, in alcuni casi, un mezzo per segnalare disprezzo o fallimento sociale. Anche il pianto è stato studiato come segnale sociale, sebbene meno approfonditamente rispetto alla risata. Un aspetto distintivo del pianto umano è la produzione di lacrime, che sembra unica nella nostra specie. Si ipotizza che il pianto sia un’evoluzione del grido di distress infantile, mantenuto nell’età adulta come segnale per sollecitare conforto. La sua espressione fisica, con posture difensive e contrazioni muscolari, suggerisce una possibile origine comune con le reazioni difensive a un attacco. In questo senso, il pianto potrebbe essersi sviluppato come strumento per favorire la riconciliazione dopo un conflitto sociale, incentivando il conforto e il mantenimento dei legami all’interno del gruppo. Sebbene questo modello non spieghi tutta la comunicazione sociale umana, suggerisce che i riflessi difensivi abbiano avuto un ruolo cruciale nell’evoluzione delle espressioni emotive e delle interazioni sociali, potenzialmente più marcato negli esseri umani rispetto ad altre specie. Dr. Walter La Gatta Fonte Graziano MSA. The origin of smiling, laughing, and crying: The defensive mimic theory. Evolutionary Human Sciences. 2022;4:e10. doi:10.1017/ehs.2022.5 Immagine Foto di Guerrero De la Luz: https://www.pexels.com/it-it/foto/toelettatura-sociale-di-gruppo-di-scimpanze-nell-habitat-naturale-31389938/ [...] Read more...
Novembre 11, 2024Educazione sessuale: quale linguaggio, quali contenuti L’educazione sessuale è un tema fondamentale per la crescita e il benessere degli individui, ma il suo successo dipende molto dalla qualità del linguaggio e dei contenuti proposti. Affrontare l’argomento con sensibilità, accuratezza e rispetto per la diversità aiuta a promuovere una comprensione sana e positiva della sessualità. Cerchiamo di saperne di più. C’è differenza fra informazione sessuale e formazione sessuale? Si. L’educazione sessuale viene spesso scissa in: aspetti relativi all’‘informazione’ (insieme delle cognizioni) aspetti relativi alla ‘formazione’ (insieme delle norme). I responsabili dell’educazione (genitori, insegnanti, catechisti) si sono sempre garantiti la ‘formazione’, per avere un maggior controllo sulle scelte pedagogiche, lasciando agli ‘specialisti’ la sola ‘informazione’ che, essendo espressa in termini scientifici, può anche spingersi in territori più spinosi. In questo modo però ogni ‘specialista’ parla del sesso solo secondo una prospettiva e lo fa diventare “solo” contraccezione, “solo” fantasia, “solo” condotta, salvo poi osservare che, nella pratica, questi specialisti spesso sconfinano dai loro campi di studio, ingenerando ancora più confusione, come quando lo psicologo si mette a fare il moralista, o quando il moralista si mette a fare lo psicologo. Quale linguaggio scegliere per l’educazione sessuale? Un approccio efficace all’educazione sessuale prevede l’uso di un linguaggio adatto all’età e alla fase di sviluppo di chi ascolta: – Infanzia e pre-adolescenza: in questa fase, il linguaggio deve essere semplice, privo di dettagli eccessivi e incentrato su concetti di base come il rispetto del corpo, i limiti personali e le prime nozioni sulle differenze biologiche. Il consiglio è quello di utilizzare termini corretti per descrivere le parti del corpo e le funzioni, evitando eufemismi, volgarità o linguaggi eccessivamente ricercati. – Adolescenza: in questa fase i contenuti dell’educazione sessuale diventano più complessi: vengono introdotti concetti come la contraccezione, la prevenzione delle malattie sessualmente trasmissibili (MST), il consenso, l’autonomia e l’identità sessuale. È importante usare un linguaggio aperto e non giudicante, favorendo una comunicazione che stimoli il dialogo e le domande, così da offrire informazioni chiare e affidabili. – Adulti: per l’educazione sessuale degli adulti, il linguaggio può essere diretto e completo, affrontando anche temi di complessità maggiore come la sessualità in età avanzata, i disagi sessuali, e la salute sessuale in termini più ampi. Cosa si intende per linguaggio inclusivo e rispettoso? Si intende che l’educazione sessuale deve tenere conto della diversità e promuovere l’inclusione attraverso un linguaggio adeguato, ovvero che rispetti tutte le identità e orientamenti, senza assumere automaticamente l’eterosessualità o il binarismo di genere come “normalità”. Vanno evitati inoltre tutti gli stereotipi e i termini che possono essere percepiti come discriminatori o stigmatizzanti. Quali argomenti vanno trattati per parlare di salute e sicurezza nella vita sessuale? In questo caso gli argomenti riguardano la contraccezione, le malattie sessualmente trasmissibili e la prevenzione degli abusi sessuali con informazioni pratiche e aggiornate. Quali argomenti affrontare per parlare del consenso e dei limiti oltre i quali non è possibile spingersi? Occorre spiegare in modo chiaro cosa significa consenso e il valore dell’ascolto dei propri bisogni e dei limiti altrui. Il consenso dovrebbe essere presentato come un requisito fondamentale per una relazione sessuale sana, enfatizzando l’importanza del rispetto reciproco. Quali argomenti si possono affrontare per parlare delle emozioni vissute nella sessualità? Si possono trattare temi come l’affettività, la comunicazione nei rapporti, la gestione delle aspettative e dei conflitti. Come rispondere alle domande? Chi si occupa di educazione sessuale deve essere aperto ad ascoltare e rispondere alle domande senza pregiudizi, anche quando sono imbarazzanti o difficili. Questo è fondamentale per costruire un ambiente di fiducia. I contenuti trasmessi possono essere influenzati da credenze, giudizi, esperienze personali? Assolutamente no. I contenuti dell’educazione sessuale devono essere oggettivi, dettagliati e non influenzati da credenze o giudizi morali. Perché parlare di sesso non è facile? Perché la sessualità umana, così tanto influenzata dai fattori culturali, si esprime soprattutto in una dimensione simbolica, fatta di allusioni, di ambiguità, di paradossi. Essa passa attraverso ciò che è appena intravisto, appena accennato, appena mostrato. Il linguaggio tecnico che normalmente si utilizza per l’educazione sessuale, che tenta di rendere trasparente la realtà, ha spesso l’effetto di devitalizzare l’universo simbolico in cui essa è iscritta, per cui alla fine dice sulla sessualità, ma non della sessualità e consente più un ‘sapere’ che un vero ‘conoscere’. Come si fa a parlare della sessualità come parte normale e naturale della vita? E’ importante utilizzare storie, esempi e situazioni realistiche che possano fungere da modelli positivi, sia per quanto riguarda le relazioni, sia per la conoscenza di sé. Esiste un linguaggio corretto per parlare di sessualità? No, non esiste un linguaggio ‘corretto’ per parlare di sessualità : il linguaggio per l’educazione sessuale non è una ricetta di cucina che serve per preparare sempre la stessa torta; gli educatori devono mettersi in sintonia con i bisogni e l’esperienza interiore di chi ascolta, adeguando il linguaggio alle persone, alle situazioni, alle condizioni in cui si opera, tentando di ridimensionare quello iato che spesso si riscontra fra i termini asettici del linguaggio tecnico e quelli fin troppo fantasiosi degli adolescenti. Come catturare l’attenzione dei più giovani? Perché vi sia ascolto, perché vi sia attenzione, occorre utilizzare gli espedienti stessi della sessualità e cioè un linguaggio che si ponga a mezza strada fra il reale e la fumosità del ‘non detto’: l’obiettivo non può essere insomma quello di svelare il mistero della sessualità, perché i misteri possono essere spiegati, ma non svelati. Quale è l’obiettivo dell’educazione sessuale? L’obiettivo dell’educazione sessuale consiste nel favorire la consapevole gestione delle proprie pulsioni e la capacità di progettarsi in relazione alle possibili scelte, responsabilità, espressioni creative e comunicative. Non ci si deve muovere da verità precostituite o da modelli prefissati, ma dalla considerazione delle potenzialità da sviluppare, pensando la sessualità come un valore positivo, parte integrante della identità personale e non disgiunta dagli altri fattori di personalità, cioè quelli intellettivi, affettivi e morali. La sessualità deve essere intesa come espressione di tutto il corpo e dell’intera persona. Educazione sessuale significa educazione al proprio corpo, come insieme e come unità. L’obiettivo deve essere allora l’educazione al e del proprio corpo, come substrato all’affettività e, più in generale, ai sentimenti. Il sesso rientra così a pieno titolo nelle espressioni della personalità e quindi si umanizza. E’ corretto parlare di “educazione sessuale”? No. Più che di educazione sessuale si dovrebbe parlare di ‘educazione al proprio corpo’ e qualsiasi lavoro dovrebbe iniziare dalla percezione del corpo e da uno studio non tanto teso a misurare come gli adolescenti percepiscono il proprio organo sessuale, ma come vivono il corpo con le sue capacità comunicative, il suo linguaggio e la sua espressione sociale. Dr. Walter La Gatta Immagine Foto di cottonbro studio Leggi anche: Storia dell’educazione sessuale [...] Read more...
Novembre 4, 2024La psicoterapia della “dignità” ai pazienti terminali La psicoterapia della dignità è un approccio terapeutico sviluppato per pazienti in fase terminale, che ha come obiettivo principale quello di promuovere e preservare la dignità della persona anche nei momenti più difficili. Ideata dal Dr. Harvey Max Chochinov, psichiatra e pioniere in cure palliative, questa terapia si basa sulla premessa che, anche di fronte alla morte imminente, le persone possano trovare un senso di valore, significato e rispetto per sé stessi. Conosciamola meglio. Cosa si intende per “dignità” dei pazienti in fase terminale? Per queste persone, la perdita di indipendenza, il deterioramento fisico e il dolore possono minare profondamente il senso di valore personale. La psicoterapia della dignità mira a fornire uno spazio sicuro e rispettoso in cui i pazienti possano esplorare e riaffermare il significato della loro vita, aiutandoli a preservare il proprio senso di dignità anche in un momento di estrema vulnerabilità. Come si svolge la psicoterapia della dignità? Nella psicoterapia della dignità, il terapeuta si concentra su aspetti quali l’autostima, il rispetto di sé, il significato della vita e l’eredità affettiva che il paziente desidera lasciare. Questa pratica si integra spesso con altri approcci di cure palliative, ma presenta specificità che la rendono unica nella sua attenzione alla dignità e alla costruzione di significato. Quali sono gli Obiettivi della Psicoterapia della Dignità? Gli obiettivi della psicoterapia della dignità sono molteplici: Rafforzamento del Senso di Dignità: aiutare i pazienti a riconoscere e riaffermare il loro valore intrinseco, indipendentemente dalla malattia o dalle limitazioni fisiche. Elaborazione del Significato della Vita: facilitare la riflessione su ciò che ha reso significativa la loro vita, attraverso la narrazione di storie personali e l’identificazione di valori centrali. Alleviamento della Sofferenza Emotiva: offrire supporto psicologico per affrontare l’angoscia, la paura e la tristezza associate alla fine della vita. Coinvolgimento dei Familiari: favorire la comunicazione e la connessione emotiva tra il paziente e i suoi cari, contribuendo a creare ricordi positivi e duraturi. Cosa si intende per “Generativity Document”? E’ un documento che raccoglie riflessioni, ricordi e messaggi del paziente per i suoi cari. Questa documentazione diventa un’opportunità per il paziente di condividere la propria storia e lasciare una sorta di “testamento emotivo,” un’eredità che possa offrire conforto e ricordo ai propri familiari. Come si svolge la psicoterapia della dignità? Sono previsti vari passaggi: 1. Colloqui iniziali e identificazione dei valori: Durante le prime sedute, il/la terapeuta aiuta il paziente a individuare i valori, i momenti salienti della sua vita e le relazioni significative. Si esplora ciò che per il paziente rappresenta la dignità, con domande aperte come “Cosa ti dà forza in questo momento?” o “Quali sono i momenti più importanti che vuoi ricordare o condividere?” 2. Narrazione e riflessione: La psicoterapia della dignità incoraggia il paziente a raccontare la propria storia e a riflettere su ciò che considera prezioso. Attraverso domande specifiche, il terapeuta invita il paziente a condividere ricordi, successi, difficoltà e lezioni apprese. Questo processo aiuta il paziente a vedere la propria vita da una prospettiva di valore e unicità. 3. Creazione del Generativity Document: La raccolta delle memorie e dei pensieri diventa un documento scritto, che può assumere la forma di una lettera o di un racconto. Il terapeuta trascrive le parole del paziente, rispettando il suo linguaggio e le sue emozioni. Questo documento è un dono prezioso che il paziente può lasciare ai propri cari come ricordo della propria vita e della propria eredità spirituale ed emotiva. 4. Discussione e revisione: Il paziente ha la possibilità di rivedere il documento e fare aggiustamenti o integrare ulteriori pensieri. Questo processo di revisione rafforza il senso di controllo e autonomia, aiutando il paziente a concludere il percorso con un senso di completezza. Quali sono i benefici della Psicoterapia della Dignità? I benefici della psicoterapia della dignità sono stati ampiamente documentati da studi clinici, che ne evidenziano il potenziale nel ridurre l’ansia, la depressione e il senso di disperazione che spesso affliggono i pazienti terminali. Alcuni dei benefici specifici di questo approccio sono: – Aumento del benessere psicologico: Offrendo ai pazienti uno spazio per esprimere e riconoscere il proprio valore, la psicoterapia della dignità contribuisce a ridurre i sintomi di depressione e migliorare l’umore. – Miglioramento delle relazioni familiari: Il processo di creazione del “generativity document” favorisce un legame più profondo tra i pazienti e i propri cari, permettendo loro di sentirsi parte di una storia più grande e significativa. – Riduzione della paura della morte: Riflettere sul proprio valore e lasciare un messaggio duraturo ai propri cari aiuta i pazienti a trovare un senso di pace, riducendo l’ansia e il senso di vuoto legato alla morte imminente. – Empowerment e controllo: Questa terapia restituisce un certo grado di controllo ai pazienti, dando loro l’opportunità di esprimere i propri desideri e di gestire l’ultima fase della propria vita in modo attivo. Quali sono i limiti della Psicoterapia della Dignità? La capacità di un paziente terminale di impegnarsi in questo percorso dipende dalle sue condizioni fisiche e mentali. In alcuni casi, il deterioramento cognitivo o la forte sofferenza fisica possono limitare la partecipazione attiva, rendendo necessario adattare la terapia alle specifiche esigenze del paziente. Un altro problema riguarda il rapporto con i familiari: non sempre i cari sono pronti a ricevere o comprendere appieno il significato del “generativity document”, specialmente in situazioni di lutto anticipatorio. Inoltre, alcuni pazienti potrebbero avere difficoltà emotive nel rivivere o condividere esperienze passate, soprattutto se queste sono legate a momenti di dolore o trauma. Dr. Walter La Gatta [...] Read more...
Ottobre 24, 2024Violenza giovanile e programmi di prevenzione Sebbene si tratti di un problema globale, le cause e le manifestazioni della violenza giovanile variano notevolmente da un contesto all’altro. Comprendere le radici del comportamento aggressivo nei giovani e sviluppare programmi di prevenzione efficaci è essenziale per ridurre l’incidenza di questi atti violenti e migliorare il benessere delle comunità. Cerchiamo di saperne di più, facendo riferimento ai più recenti dati OMS. Cosa si intende per violenza giovanile? La violenza giovanile riguarda atti che vanno dal bullismo, sia offline che online, agli scontri fisici, alle violenze sessuali e fisiche più gravi, alla violenza legata alle gang o all’omicidio. Quali sono i dati più recenti che riguardano la violenza giovanile? Sono i seguenti: In tutto il mondo ogni anno si verificano oltre 176.000 omicidi tra i giovani di età compresa tra 15 e 29 anni, pari al 37% del numero totale di omicidi a livello globale ogni anno. L’omicidio è la terza causa di morte tra i 15 e i 29 anni e la stragrande maggioranza degli omicidi riguarda vittime di sesso maschile. Per ogni giovane ucciso, molti altri riportano ferite che richiedono cure ospedaliere. Quando non è mortale, la violenza giovanile ha un impatto grave, spesso permanente, sul funzionamento fisico, psicologico e sociale di una persona. Nel dettaglio: In tutto il mondo si stima che ogni anno si verifichino 176.000 omicidi tra i giovani di età compresa tra 15 e 29 anni, il che ne fa la terza causa di morte per le persone in questa fascia di età. I ​​tassi di omicidio tra i giovani variano notevolmente tra i paesi e all’interno dei paesi. Tra il 2000 e il 2019, i tassi di omicidio tra i giovani sono diminuiti nella maggior parte dei paesi, sebbene la diminuzione sia stata maggiore nei paesi ad alto reddito rispetto ai paesi a basso e medio reddito. La maggior parte delle vittime di omicidio tra i giovani sono maschi e anche la maggior parte degli autori sono maschi. Per ogni giovane ucciso dalla violenza, un numero maggiore riporta ferite che richiedono cure ospedaliere. Gli attacchi con armi da fuoco finiscono più spesso con ferite mortali rispetto alle aggressioni che coinvolgono pugni, calci, coltelli e oggetti contundenti. La violenza sessuale colpisce 1 giovane su 8. Anche i combattimenti fisici e il bullismo sono comuni tra i giovani. Uno studio su 40 paesi in via di sviluppo ha mostrato che una media del 42% dei ragazzi e del 37% delle ragazze è stata esposta al bullismo. L’omicidio giovanile e la violenza non mortale non solo contribuiscono notevolmente al peso globale di morte prematura, lesioni e disabilità, ma hanno anche un impatto serio, spesso duraturo, sul funzionamento psicologico e sociale di una persona. Ciò può avere ripercussioni sulle famiglie, gli amici e le comunità delle vittime. La violenza giovanile aumenta i costi dei servizi sanitari, assistenziali e di giustizia penale; riduce la produttività; diminuisce il valore della proprietà. Quali sono le cause della violenza giovanile? Le cause della violenza giovanile sono multifattoriali e includono influenze individuali, familiari e sociali. Tra i principali fattori troviamo: Fattori Individuali. Alcuni giovani possono sviluppare comportamenti violenti a causa di problemi psicologici non trattati, come disturbi dell’umore, disturbi della condotta, o una difficoltà nel gestire la rabbia. I traumi infantili, come abusi o trascuratezza, possono aumentare la predisposizione alla violenza. Influenza familiare: Famiglie disfunzionali o con una storia di violenza domestica possono contribuire allo sviluppo di comportamenti aggressivi nei giovani. L’assenza di modelli positivi, l’uso di metodi di disciplina punitivi o la mancanza di supporto emotivo possono creare un ambiente favorevole alla violenza. Pressione dei pari: Gli adolescenti spesso cercano l’approvazione dei loro coetanei. In gruppi sociali in cui la violenza è accettata o promossa, i giovani possono sentirsi obbligati a partecipare per non essere emarginati. Fattori socio-economici: Povertà, esclusione sociale, mancanza di opportunità educative e lavorative possono aumentare i livelli di frustrazione e disperazione nei giovani, portandoli a sfogare tali emozioni attraverso atti di violenza. Influenza dei media: La rappresentazione della violenza nei media, inclusi film, videogiochi e social media, può desensibilizzare i giovani, normalizzando comportamenti aggressivi. Quali sono i principali fattori di rischio, a livello individuale? Sono i seguenti: deficit di attenzione, iperattività, disturbo della condotta o altri disturbi comportamentali coinvolgimento precoce con alcol, droghe e tabacco bassa intelligenza e rendimento scolastico scarso impegno scolastico e insuccesso scolastico coinvolgimento in attività criminali disoccupazione esposizione alla violenza in famiglia. Quali sono i principali fattori di rischio a livello di influenza familiare? Sono i seguenti: scarso monitoraggio e supervisione dei figli da parte dei genitori pratiche disciplinari genitoriali dure, lassiste o incoerenti un basso livello di attaccamento tra genitori e figli basso coinvolgimento dei genitori nelle attività dei bambini abuso di sostanze o criminalità dei genitori depressione genitoriale basso reddito familiare disoccupazione in famiglia Quali sono i principali fattori di rischio a livello sociale e di pressione dei pari? Sono i seguenti: accesso e abuso di alcol accesso e uso improprio delle armi da fuoco bande e una fornitura locale di droghe illecite elevata disuguaglianza di reddito povertà la qualità della governance di un paese (le sue leggi e la misura in cui vengono applicate, nonché le politiche per l’istruzione e la protezione sociale). Quali sono gli effetti della violenza giovanile? La violenza giovanile provoca morti, ferite, disabilità e conseguenze sulla salute a lungo termine, tra cui problemi di salute mentale e comportamenti a rischio per la salute, che possono portare a malattie croniche. È inoltre associata a tassi più elevati di abbandono scolastico, impatti negativi sullo sviluppo cognitivo e minori opportunità di contribuire alle loro comunità. Come si possono prevenire queste manifestazioni di violenza? La prevenzione della violenza giovanile richiede un approccio globale che riconosca la forte correlazione tra i tassi di violenza giovanile e le disuguaglianze economiche. I settori più poveri delle società, caratterizzati da significativi divari di ricchezza tra ricchi e poveri, presentano costantemente i tassi più elevati di violenza giovanile. Le disparità economiche esacerbano la frustrazione e la disperazione tra i giovani svantaggiati, portando a un ambiente in cui la violenza diventa uno sbocco comune. Per prevenire la violenza giovanile è dunque necessario un approccio globale che tenga conto dei determinanti sociali della violenza, come la disuguaglianza dei redditi, i rapidi cambiamenti demografici e sociali e i bassi livelli di protezione sociale. Quali sono i programmi di prevenzione più promettenti? I programmi di prevenzione più promettenti sono i seguenti: programmi di sviluppo sociale e di competenze di vita progettati per aiutare bambini e adolescenti a gestire la rabbia, risolvere i conflitti e sviluppare le competenze sociali necessarie per risolvere i problemi; approcci scolastici globali alla prevenzione della violenza nelle strutture educative; programmi che supportano i genitori e insegnano competenze genitoriali positive; programmi prescolari che forniscono ai bambini competenze accademiche e sociali fin dalla tenera età; approcci terapeutici per i giovani ad alto rischio di coinvolgimento nella violenza; ridurre l’accesso all’alcol; interventi per ridurre l’uso dannoso di droghe; licenze restrittive per le armi da fuoco; polizia orientata alla comunità e ai problemi; interventi per ridurre la povertà concentrata e riqualificare gli ambienti urbani. Quali sono i fattori che possono proteggere i giovani dalla violenza? I fattori che possono proteggere i giovani dalla violenza includono: buone abilità sociali (saper ascoltare, pensare ai sentimenti degli altri, saper lavorare in gruppo ed essere costruttivi), autostima, buoni risultati scolastici, legami forti con i genitori, legami forti con un gruppo di pari positivi, buon attaccamento alla scuola, coinvolgimento nella comunità accesso al supporto sociale. Molti studi indicano che la riduzione dei fattori di rischio e il rafforzamento dei fattori protettivi possono ridurre la violenza giovanile. Le politiche sociali e gli approcci sistematici che affrontano le cause alla base della violenza possono rendere le comunità molto più sicure. Non bisogna dimenticare che molti ragazzi sono violenti perché non conoscono altri mezzi per ottenere ciò che desiderano. Fonte: Who Immagine Foto di Miriam Verheyden da Pixabay Dr. Walter La Gatta [...] Read more...
Ottobre 19, 2024La magia del Natale Il Natale è una delle festività più sentite e celebrate al mondo, un momento in cui tradizioni, affetti e rituali si intrecciano per creare un’atmosfera di calore e meraviglia. Tuttavia, al di là delle luci scintillanti e dei regali, nel Natale c’è una profondità emotiva che rende questo periodo dell’anno particolarmente significativo, soprattutto per i bambini. La magia del Natale non si esaurisce nella celebrazione in sé, ma lascia un’impronta duratura nei ricordi e nell’immaginario delle persone, influenzando positivamente il benessere psicologico e i legami familiari. Ne parliamo in questo articolo. Quanto è importante il Natale nell’infanzia? Moltissimo. La psicologia dello sviluppo ha ampiamente dimostrato che le esperienze vissute durante l’infanzia, specialmente quelle cariche di emozioni positive, hanno un impatto profondo sulla costruzione della personalità del bambino. Cosa ricordano i bambini della loro infanzia? I bambini tendono a ricordare con particolare intensità le esperienze in cui hanno percepito l’affetto e la vicinanza della famiglia. Le ricerche mostrano che i ricordi associati a forti emozioni vengono immagazzinati con maggiore vividezza e durano più a lungo nel tempo. Questo accade perché l’amigdala, la struttura cerebrale coinvolta nell’elaborazione delle emozioni, è particolarmente attiva in momenti di grande gioia o felicità. E’ evidente allora che il Natale, con la sua capacità di evocare emozioni intense e momenti di condivisione, è uno di quegli eventi che possono generare ricordi duraturi e significativi. Questi ricordi non sono semplicemente delle immagini mentali, ma rappresentano delle vere e proprie ancore emotive, capaci di “scaldare il cuore” anche nei momenti più difficili della vita adulta. Quanto è importante la famiglia unita nei giorni di Natale? La famiglia gioca un ruolo centrale nel rafforzare la magia del Natale. In un mondo in cui il tempo è spesso frammentato e gli impegni quotidiani tendono a separare i vari componenti della famiglia, il Natale rappresenta un’opportunità per ritrovare quella coesione e quella vicinanza che a volte, nella vita moderna, viene meno. Perché sono importanti le tradizioni natalizie? Le tradizioni natalizie, come decorare l’albero, cucinare insieme o scambiarsi i regali, creano un senso di appartenenza familiare e rinforzano i legami affettivi. La particolare coesione familiare, avvertita da grandi e piccoli nei giorni di Natale e il tempo trascorso insieme a parlare e a giocare contribuiscono a migliorare il benessere psicologico non solo dei bambini, ma anche degli adulti. Le famiglie che riescono a creare un’atmosfera di unità durante le festività contribuiscono alla creazione di una base solida su cui i più giovani potranno contare per tutta la vita. Quali sono gli aspetti negativi del Natale? Gli aspetti negativi del Natale riguardano l’eccessiva tendenza al consumismo. Negli ultimi decenni, il Natale è diventato sempre più associato all’acquisto di regali, al punto da trasformarsi in una delle festività commercialmente più redditizie dell’anno. A cosa è dovuto l’eccessivo consumismo legato al Natale? Spesso è legato a una sensazione di vuoto emotivo e a un tentativo di colmarlo con beni materiali. L’acquisto compulsivo può offrire una gratificazione immediata, ma spesso porta a un senso di insoddisfazione nel lungo termine. Per questo motivo occorre ripensare al Natale come a un’opportunità per offrire tempo, attenzione e amore ai propri cari, specialmente ai più piccoli, senza lasciarsi prendere da quello che è stato definito “holiday stress” che consiste nello spendere molti soldi per fare colpo con regali supercostosi, allo scopo di ridurre al minimo il rischio di fare un regalo sbagliato. Perché la magia del Natale è utile allo sviluppo cognitivo del bambino? Per i bambini, il Natale è spesso circondato da un’aura di magia. L’attesa di Babbo Natale, le luci che illuminano le strade e le case, la gioia di scartare i regali sotto l’albero sono momenti di pura meraviglia. Dal punto di vista psicologico, la capacità di un bambino di vivere appieno questa magia è fondamentale per lo sviluppo della sua immaginazione e della sua creatività. Le favole, i racconti e i miti natalizi stimolano la mente dei bambini e li aiutano a esplorare il mondo con occhi pieni di stupore. Questa atmosfera di magia e meraviglia vissuta nell’infanzia in che modo migliora gli adulti che l’hanno vissuta? Numerosi studi hanno dimostrato che coltivare la fantasia e l’immaginazione nei primi anni di vita promuove una maggiore capacità di problem-solving e, soprattutto, di creatività in età adulta. Ecco perché il Natale, con le sue storie e tradizioni, è uno dei momenti in cui questo potenziale può essere sviluppato al meglio. Perché avere avuto una infanzia felice aiuta per tutta la vita? Perché quando i bambini crescono e si trovano ad affrontare le difficoltà della vita adulta, i ricordi felici dell’infanzia, in particolare quelli legati a momenti di affetto e serenità, possono diventare una fonte di grande conforto. La psicologia ha evidenziato come i ricordi positivi, soprattutto quelli legati a esperienze di sicurezza e amore, fungano da “rifugio emotivo” durante i momenti di stress o difficoltà. Il Natale, grazie alla sua capacità di generare ricordi così significativi, può quindi avere un effetto duraturo sul benessere emotivo. Il Natale dunque non è solo una festività di altri tempi? Assolutamente no. Non solo il Natale non è una festività superata, ma è ancora oggi una splendida occasione per creare legami, rafforzare relazioni e generare ricordi positivi, con quel tocco di magia che sa scaldare il cuore non solo ai bambini, ma anche agli adulti: basta solo lasciare da parte ogni pensiero critico e negativo, tornare bambini e godersi a pieno, almeno per qualche giorno, questo grande patrimonio di amore. Dr. Walter La Gatta Immagine Image by Agata from Pixabay [...] Read more...
Ottobre 15, 2024Social Network e Contesto Lavorativo L’avvento delle tecnologie digitali ha trasformato profondamente il mondo del lavoro: oggi i social network svolgono un ruolo sempre più rilevante, anche in questo ambito. Infatti, se in origine le piattaforme social erano nate come strumenti per la socializzazione, oggi sono diventate fondamentali anche in ambito professionale, dal momento che offrono nuove e diverse opportunità per il networking, il reclutamento, il marketing e la gestione della reputazione. Tuttavia, l’uso dei social network nel contesto lavorativo solleva anche questioni critiche, legate alla privacy, al benessere psicologico, alla perdita di produttività e ai confini tra vita privata e professionale. Cerchiamo allora di focalizzarci su come il social networking stia oggi ridefinendo il mondo lavoro e le implicazioni che tutto questo comporta. Quando sono nati i social media? Il primo social network considerato rilevante nel panorama moderno è stato Six Degrees, lanciato nel 1997. Esso permetteva agli utenti di creare profili, liste di amici e di inviare messaggi. All’epoca, solo l’1,7% della popolazione utilizzava Internet. Oggi  SixDegrees.com esiste ancora, ma è praticamente abbandonato. E’ con l’avvento di MySpace nel 2003 e Facebook nel 2004 che i social media sono esplosi in termini di popolarità. Facebook, in particolare, è diventato il sito principale di riferimento, trasformando il concetto di “rete sociale” in una piattaforma globale per la comunicazione e il networking. Attualmente, Facebook rimane uno dei principali social media con oltre 2,8 miliardi di utenti attivi mensilmente, seguito da piattaforme come Instagram, YouTube e TikTok. Perché i Social Media hanno rivoluzionato il modo di comunicare nel mondo del lavoro? Perché da semplici piattaforme di condivisione di contenuti, i social media si sono evoluti in strumenti fondamentali per il networking professionale, il marketing e la produttività aziendale. Quale è stata l’evoluzione del social networking nel contesto lavorativo? Negli ultimi due decenni, il confine tra lavoro e socializzazione si è progressivamente sfumato, grazie all’avvento di piattaforme come LinkedIn, Twitter, Facebook e, più recentemente, Instagram e TikTok. LinkedIn, in particolare, si è affermata come la piattaforma di riferimento per i professionisti, permettendo di creare collegamenti, trovare nuove opportunità lavorative e migliorare la propria visibilità. L’uso dei social media è oggi considerato uno strumento indispensabile per il networking professionale? Si, dal momento che permette agli individui di creare e mantenere relazioni lavorative che altrimenti sarebbero difficili da coltivare. Le aziende hanno usato i social anche per fare marketing? Si. I social network hanno consentito alle aziende di promuovere la propria immagine pubblica e di condividere la cultura aziendale con dipendenti, clienti e potenziali collaboratori. Attraverso la condivisione di contenuti positivi e l’interazione con il pubblico, le imprese hanno potuto rafforzare il loro “employer branding”, migliorando l’attrattiva nei confronti dei migliori talenti. Le aziende usano i social per assumere? Si, sempre più spesso. Le aziende stanno sfruttando i social network per ampliare la propria rete di talenti: il reclutamento attraverso i social media non solo ha ridotto i tempi di assunzione, ma ha anche aumentato la capacità delle aziende di trovare candidati con competenze specifiche, grazie alla maggiore visibilità e all’uso di algoritmi che selezionano i profili più rilevanti. Le aziende hanno anche avuto delle perdite per l’uso eccessivo dei social da parte dei dipendenti? Si, l’uso improprio di questi strumenti può aver portato i dipendenti a distrazioni, perdita di produttività e interferenze nelle relazioni lavorative. Le distrazioni causate dai social compromettono infatti la concentrazione e riducono l’efficienza. Si stima che in media i dipendenti passino circa 35-50 minuti al giorno sui social media per motivi non legati al lavoro, causando una perdita significativa in termini di produttività. I lavoratori che trascorrono molte ore sui social stanno sempre perdendo tempo?  No, non bisogna generalizzare. Oggi, infatti, le relazioni personali e professionali si mescolano facilmente sui social media ed è per questo che per un numero crescente di persone rimanere attivi sui social non è una perdita di tempo, ma fa parte del proprio lavoro. Cosa possono fare le aziende per evitare i problemi causati dalla perdita di produttività? Molti  datori di lavoro scelgono di bloccare i social, o di attivare dei firewall per impedirne l’uso, ma tutto questo è inutile se non si creano delle regole sul corretto uso del cellulare nell’ambiente di lavoro. La ricerca mostra che i lavoratori i cui datori di lavoro hanno stabilito delle regole sull’uso dei social sul posto di lavoro trascorrono meno tempo lavorativo sui social per motivi strettamente personali. Quante ore si trascorrono sui social oggi? L’uso dei social media è diventato una parte integrante della vita quotidiana. Le statistiche riportano che solo negli Stati Uniti le persone trascorrono in media due ore e tre minuti al giorno sui social media. La maggior parte del tempo viene trascorso su Facebook, con stime che vanno da 38 minuti a oltre un’ora al giorno. Quante volte si va a controllare il proprio profilo sui social? In termini di accesso ai social media, i dati mostrano che gli utenti controllano i loro profili social in media 10-20 volte al giorno. Questa frequenza può essere ancora più alta per chi utilizza i social media a scopo professionale o per chi lavora in settori strettamente collegati alla comunicazione digitale, come il marketing . Secondo Pew Research, il 74% degli utenti adulti di Facebook negli Stati Uniti accede almeno una volta al giorno. Quando offrire e accettare l’amicizia sui social media nel contesto lavorativo? Le relazioni lavorative sono sempre più intrecciate con le interazioni sui social network, ma è importante mantenere un equilibrio appropriato. Accettare o offrire amicizia su piattaforme social può variare a seconda del contesto. LinkedIn, ad esempio, è generalmente considerata accettabile per collegamenti professionali, mentre Facebook e Instagram, più orientati alla sfera personale, richiedono una maggiore riflessione. Prima di inviare una richiesta o di accettarla, è sempre importante valutare il grado di familiarità e la natura della relazione professionale. Offrire o accettare amicizia sui social media subito dopo aver iniziato un rapporto di lavoro può sembrare prematuro. È preferibile attendere che la relazione professionale si consolidi, in modo da stabilire un confine chiaro tra il personale e il lavorativo. Occorre anche tenere presente che non tutti i colleghi o superiori desiderano essere contattati sui social media. In tal caso, accettare un rifiuto senza insistenza è fondamentale per mantenere una buona relazione di lavoro. Quali vantaggi hanno portato i social network per i lavoratori e i professionisti? I social network hanno offerto ai lavoratori numerosi vantaggi, tra cui: Costruire una forte identità digitale, condividendo il proprio lavoro, le proprie competenze e conoscenze, e interagendo con colleghi e leader del settore. La creazione di un “personal brand” ha permesso di portare a nuove opportunità di lavoro, a collaborazioni e all’acquisizione di una maggiore autorità nel proprio campo. La partecipazione a gruppi di discussione professionali, webinar, e la condivisione di contenuti formativi hanno consentito ai lavoratori di aggiornare costantemente le proprie competenze. E’ stato possibile entrare in contatto con colleghi e aziende di tutto il mondo. Questo ampliamento della rete di contatti può aver favorito l’internazionalizzazione della propria carriera e la possibilità di lavorare in contesti interculturali. Quali sono i rischi della frequentazione dei social network rispetto al contesto lavorativo? Nonostante le opportunità, l’uso dei social network nel contesto lavorativo ha presentato anche delle criticità: Indebolimento della separazione tra vita privata e professionale. I social network hanno reso difficile mantenere una netta distinzione tra questi due ambiti, esponendo gli individui a un maggiore scrutinio da parte di datori di lavoro e colleghi. L’uso costante dei social network può aver contribuito a un sovraccarico cognitivo e a un aumento dello stress lavorativo. Il “Fear of Missing Out” (FOMO), ovvero la paura di perdere opportunità o informazioni importanti, può aver indotto i lavoratori a monitorare costantemente le piattaforme social, compromettendo la concentrazione e la produttività. La presenza di informazioni personali e post pubblici sui profili social può aver esposto i lavoratori a giudizi discriminatori da parte dei datori di lavoro. Oggi infatti le decisioni di assunzione possano essere influenzate da elementi personali estrapolati dai social media, come le preferenze politiche, religiose o lo stile di vita. Quali sono le regole per un buon uso dei social nel contesto lavorativo? Per sfruttare i vantaggi dei social media senza comprometterne la produttività e le relazioni professionali, è importante seguire alcune regole pratiche: 1. Separare il personale dal professionale: è utile mantenere account separati per uso personale e lavorativo, specialmente su piattaforme come Facebook e Instagram. LinkedIn, per esempio, è considerato il social network più appropriato per interazioni di natura professionale. 2. Utilizzo consapevole: limitare il tempo trascorso sui social media durante l’orario di lavoro può ridurre le distrazioni: i dipendenti dovrebbero cercare di autoregolarsi in tal senso e le aziende dovrebbero stabilire regole per l’uso dei social media durante l’orario di lavoro. 3. Comunicazione trasparente: quando si utilizza una piattaforma per comunicazioni aziendali o di networking, è importante adottare un tono professionale e rispettoso. Eventuali commenti o post dovrebbero sempre essere considerati come potenzialmente visibili a colleghi o superiori. 4. Rispetto della privacy: condividere informazioni private o dettagli sensibili dell’azienda su piattaforme social può avere conseguenze legali. È essenziale essere consapevoli delle normative aziendali relative all’uso dei social network e alla condivisione di contenuti. L’uso dei social media può influire sulla propria carriera professionale, nel bene e nel male? Si. Una cosa importante da ricordare sempre, parlando di social media, è che essi non sono mai veramente privati e dunque ogni cosa che è pubblicata sui social può riflettersi, nel bene e nel male, sulla propria carriera professionale. Inserire contenuti positivi per il proprio lavoro o riflessioni approfondite sul proprio settore, insieme ad alcuni divertenti post personali, può migliorare la propria reputazione o la propria carriera, ma altre cose vanno sicuramente evitate. Ad esempio: è una buona idea commentare o pubblicare una propria foto sui social? Probabilmente la risposta più indicata è no. Le persone che non riescono a separare vita personale e la vita professionale dovrebbero creare due account distinti. Quali social è meglio usare come strumenti di lavoro? E’ bene sapere che esistono vari tipi di social e che alcuni sono meglio di altri per essere utilizzati come strumenti di lavoro. Su Twitter, Facebook e LinkedIn funzionano, in genere, contenuti assai diversi. Ciascuno, quindi, dovrebbe scegliere il social che è più vicino ai valori e ai contenuti che intende divulgare. E’ un bene o un male mostrarsi molto attivi nei social? Per alcuni essere troppo attivi sui social significa che non si sta facendo altro, come ad esempio lavorare; per chi ha fatto dei social il proprio lavoro significa essere stakanovisti del web. I social possono influire sulla reputazione delle persone? Si. La ricerca mostra che i lavoratori hanno maggiori probabilità di scoprire informazioni sui social media che peggiorano la loro opinione su una persona che conoscono, piuttosto che migliorarla. E’ bene esprimere liberamente le proprie opinioni sui Social? No. Tutti hanno diritto alle proprie opinioni, ma occorre pensare molto prima di pubblicare o commentare un post in modo eccessivamente acceso: la cosa potrebbe avere spiacevoli e inattese conseguenze. Dr. Walter La Gatta Fonte principale The Do’s And Don’ts Of Social Media Etiquette At Work, Forbes Immagine Foto di Andrea Piacquadio [...] Read more...
Ottobre 7, 2024Disfunzione erettile: trattamento sessuologico La disfunzione erettile è un disturbo molto comune, che può colpire uomini di diverse fasce d’età e che influisce profondamente sulla qualità della vita e sul benessere psicologico. Sebbene le cause fisiche, come malattie cardiovascolari, diabete e disturbi ormonali, siano ben documentate, le componenti psicologiche come ansia da prestazione, stress e problemi relazionali sono altrettanto rilevanti. Nell’articolo che segue è possibile trovare suggerimenti e informazioni per chi si accosta a un trattamento psicosessuologico della disfunzione erettile. Disfunzione erettile: cosa significa? Per disfunzione erettile si intende l’incapacità del soggetto di sesso maschile di raggiungere o mantenere un’erezione sufficiente a condurre un rapporto sessuale soddisfacente. Quali sono le cause? Le cause sono in genere dovute a fattori fisici e psicologici. Le cause organiche possono riguardare malattie come il diabete o gli effetti collaterali di farmaci. Una delle principali cause psicologiche della disfunzione erettile è l’ansia da prestazione. Dopo il primo fallimento dell’erezione, gli uomini possono cominciare a temere il rapporto, per la paura che il problema possa ripresentarsi. La paura di non riuscire ad avere o mantenere un’erezione porta a uno stato di ipervigilanza e a un’attivazione eccessiva del sistema nervoso simpatico, il che compromette ulteriormente la funzione erettile. Quanto contano le componenti relazionali? Le componenti relazionali giocano un ruolo chiave. La mancanza di comunicazione con il/la partner, problemi emotivi all’interno della relazione o esperienze sessuali negative possono contribuire a innescare o perpetuare la disfunzione. Per questo motivo, il trattamento psicosessuologico non si limita all’individuo, ma spesso coinvolge anche la coppia. Quali terapie si usano per la disfunzione erettile? Dal momento che la Disfunzione Erettile è spesso dovuta a numerosi fattori, l’intervento terapeutico deve cercare di interessarsi di ciascuno di essi, senza dimenticare le aspettative ed i desideri del paziente e del/della partner. Se la disfunzione erettile è causata da problemi organici, vi sono farmaci o dispositivi che possono aiutare a risolvere il problema. Sul piano strettamente psicologico in genere si usa la Terapia cognitivo-comportamentale che aiuta a identificare e modificare i pensieri negativi o disfunzionali che possono contribuire all’ansia da prestazioni e all’autosabotaggio.  Terapia di coppia: Se la disfunzione erettile è legata a dinamiche relazionali, il coinvolgimento del/della partner nella terapia può essere essenziale. Questo approccio mira a migliorare la comunicazione e a ridurre la tensione nella relazione, contribuendo a una maggiore intimità emotiva e fisica. Tecniche di rilassamento: Tecniche come la meditazione e il training autogeno possono aiutare a ridurre l’ansia e migliorare la consapevolezza corporea, permettendo di affrontare il momento presente senza preoccupazioni sul risultato della prestazione. Informazione sessuale: E’ importante anche ricevere informazioni scientifiche sull’argomento, eliminando miti o aspettative irrealistiche che possono influenzare negativamente l’esperienza sessuale. In cosa consiste la terapia psicosessuologica della disfunzione erettile? La terapia psico-sessuologica per la disfunzione erettile si concentra sulla riduzione dell’ansia, eliminando i timori eccessivi dell’uomo nei confronti della sua performance nel rapporto. In genere, prima di iniziare una terapia psicosessuale viene suggerito di fare degli accertamenti medici, se non altro per escludere che la disfunzione sia generata da fattori organici. Il messaggio principale da consegnare al paziente con DE è che lui sta avendo un problema di erezione, ma che non per questo deve considerarsi “impotente”, o sentirsi diminuito, come persona e come uomo. Sebbene l’erezione sia una importante variabile per definire la sessualità maschile e la virilità, è importante che il paziente e la sua partner comprendano che quella non è la sola variabile da prendere in considerazione. Si può infatti avere una vita sessuale abbastanza soddisfacente anche in assenza di una piena funzionalità erettile. Che ruolo ha la partner in questa terapia? Il/la partner normalmente non dovrebbe essere escluso/a dalla terapia psicosessuale: è importante prendere in considerazione la relazione di coppia ed assicurarsi che nel rapporto non manchino la spontaneità, la sensualità e la tenerezza e che non vi siano, in entrambi i partner, aspettative irrealistiche nei confronti della prestazione sessuale. Quali sono le aspettative errate sulla disfunzione erettile? Vi sono numerosi miti, piuttosto diffusi, collegati alla disfunzione erettile: essi vanno esplorati, discussi con il terapeuta e drasticamente ridimensionati quando possono creare problemi di tipo psicologico. Ad esempio, non è detto che la DE dipenda sempre da una scarsa intesa sessuale o da una mancanza di interesse nei confronti del/della partner. La terapia psicosessuale indagherà molti altri fattori, fra cui quelli relazionali e quelli legati allo stile di vita della coppia. Cosa c’entra lo stile di vita? La relazione sessuale è soddisfacente quando si basa su un buon clima, fatto di atmosfere complici e rilassate, senza particolari stress o sensazioni di stanchezza fisica. Uno stile di vita sbagliato riduce il tempo da dedicare alla propria relazione e diminuisce anche le attenzioni che si riescono a prestare all’alimentazione, al riposo, alla forma fisica, alla cura della propria persona. Ovviamente tutto questo non può che ripercuotersi nel campo della sessualità. Buoni suggerimenti sono dunque quelli di seguire una buona dieta, abbandonare alcol e sigarette, dedicarsi all’attività fisica. Tutti i comportamenti che vanno nella direzione della salute vanno anche nella direzione della soluzione positiva della disfunzione sessuale. Cosa viene consigliato ai partners? Viene consigliato di coltivare un clima di tolleranza alle frustrazioni ogni volta che si presenta una defaillance: non tutti i rapporti sessuali vanno benissimo; possono esserci passi in avanti e passi indietro, alti e bassi, e tutto questo può accadere anche durante una terapia sessuale. E’ importante dunque cercare di affrontare i problemi legati alla sessualità con un senso positivo di fiducia, dal momento che essi, come dimostra la ricerca e la pratica clinica, possono essere risolti. E’ importante imparare a sdrammatizzare e, perché no, usare anche il senso dell’umorismo, senza mai prendersi eccessivamente sul serio. Perché viene consigliato di evitare l’auto-osservazione? Perché i pazienti con DE tendono a sviluppare dei meccanismi disfunzionali, come l’eccesso di auto-osservazione che porta a una mancanza di attenzione verso gli stimoli erotici, insieme ad una serie di aspettative negative, che portano il paziente a monitorare costantemente il proprio livello di erezione, anziché il piacere dato dal rapporto sessuale, aggravando così il problema. Come cambiare le dinamiche dei rapporti sessuali? E’ consigliabile che la coppia dia maggiore importanza alla fase dell’accarezzamento non genitale (detto anche accarezzamento “non esigente”, cioè quello che viene fatto per semplice tenerezza e non per eccitare sessualmente il/la partner). Coltivare la sensualità e l’erotismo dovrebbe essere il più importante obiettivo da raggiungere, prima di pensare alla prestazione sessuale. La terapia psicosessuale è utile anche quando il problema è di origine organica? Si. La terapia sessuale è indicata anche nei casi in cui la DE è di origine organica (per le insicurezze ed i sensi di inadeguatezza che inevitabilmente si generano nel paziente). In ogni caso, la combinazione di trattamenti farmacologici (come l’uso di inibitori della PDE-5) con la terapia psicologica porta a risultati migliori rispetto alla sola somministrazione di farmaci. Questo evidenzia l’importanza di un approccio multidisciplinare alla gestione della DE. Dr. Walter La Gatta Foto di Daniel Xavier [...] Read more...
Ottobre 5, 2024La dislessia: conoscerla e superarla La dislessia è un disturbo specifico dell’apprendimento che influisce sulla capacità di leggere, scrivere e comprendere testi in modo fluido e accurato. Questo disturbo, che colpisce circa il 5-10% della popolazione mondiale, non è legato a deficit intellettuali o sensoriali, ma a una difficoltà nel processo di decodifica delle parole. Capire cosa sia la dislessia e come affrontarla è essenziale per supportare le persone che ne soffrono, soprattutto in contesti educativi e lavorativi. Approfondiamo l’argomento. Che cos’è la dislessia? La dislessia è un disturbo che riguarda la capacità di leggere correttamente e rapidamente. Nonostante chi ne soffra possa avere intelligenza e motivazione adeguate, la lettura può risultare lenta, imprecisa e faticosa. È importante sottolineare che la dislessia non è una malattia, ma una condizione neurologica che accompagna la persona per tutta la vita, influenzando in particolare il percorso scolastico e lavorativo. Quali sono i sintomi principali? I sintomi della dislessia possono variare notevolmente da persona a persona, ma alcuni segnali comuni sono i seguenti: – Difficoltà nella lettura: lettura lenta, faticosa o imprecisa. – Problemi nella scrittura: inversione di lettere, errori ortografici frequenti e difficoltà nella produzione di testi scritti. – Scarsa comprensione del testo: difficoltà nel comprendere ciò che viene letto, anche se le parole sono decodificate correttamente. – Difficoltà nel riconoscere le parole: problemi a distinguere rapidamente parole familiari o a riconoscere parole simili. – Memoria a breve termine compromessa: difficoltà nel memorizzare informazioni lette o ascoltate. Le difficoltà diventano più evidenti con l’aumentare delle richieste scolastiche. La dislessia può influenzare altre abilità? Si. Generalmente le difficoltà di leggere si accompagnano anche a difficoltà ortografiche, comprensione della matematica, abilità linguistiche. Ad esempio, riconoscere i suoni nelle parole e mettere in relazione le lettere con i suoni che producono. Può anche rendere difficile combinare suoni per formare parole e pronunciare o “decodificare” le parole. Le persone con dislessia hanno inoltre difficoltà a comprendere ciò che leggono (comprensione della lettura). La persona dislessica è meno intelligente? No. La dislessia è una difficoltà che riguarda solo il linguaggio e dunque non l’intelligenza in generale. Le persone dislessiche possono infatti essere molto intelligenti e avere un ricco vocabolario cui attingere. Con il tempo e il giusto supporto possono imparare delle strategie per scrivere normalmente e, nei casi più gravi, anche imparare a parlare correttamente, collegando i suoni con le parole. Esistono vari tipi di dislessia? Si. Esistono diverse forme di dislessia che si manifestano in modi differenti: – Dislessia fonologica: difficoltà nel collegare i suoni alle lettere o gruppi di lettere, causando problemi nella lettura e scrittura delle parole. – Dislessia superficiale: difficoltà nel riconoscere le parole visivamente, con una lettura lenta e difficoltosa. – Dislessia mista: mix di difficoltà fonologiche e di riconoscimento visivo. Quali sono le cause della dislessia? La dislessia ha una base genetica e neurologica. Le ricerche mostrano che i soggetti dislessici presentano differenze strutturali e funzionali in alcune aree del cervello, in particolare nelle aree deputate alla gestione del linguaggio. Anche se l’esatta causa della dislessia non è ancora del tutto chiara, gli studi suggeriscono che si tratti di un disturbo ereditario, con una maggiore probabilità di manifestarsi se ci sono parenti affetti dallo stesso disturbo. Cosa hanno mostrato gli studi sul cervello? Gli studi di neuroimaging hanno dimostrato che le persone con dislessia tendono ad avere un’attivazione diversa nelle regioni del cervello coinvolte nella lettura, in particolare nella regione temporale sinistra, deputata all’elaborazione dei suoni linguistici, e nella corteccia occipitotemporale, associata al riconoscimento rapido delle parole. Queste differenze nell’attivazione cerebrale spiegano perché la lettura sia più lenta e difficoltosa per i dislessici. Quanto contano i fattori ambientali? Anche l’ambiente può influire sull’evoluzione del disturbo. Per esempio, un ambiente ricco di stimoli linguistici e lettura fin dalla prima infanzia può aiutare a ridurre gli effetti della dislessia. Al contrario, la mancanza di un supporto educativo adeguato può peggiorare le difficoltà legate al disturbo. Quali sono i primi segnali? Il primo segnale di dislessia è la confusione nella lettura (il bambino legge invertendo lettere o grafemi, ad esempio leggendo ‘or’ al posto di ‘ro’, ‘cri’ al posto di ‘cir’, oppure sostituendo alcune lettere, come la ‘v’ al posto della ‘f’, la ‘b’ al posto della ‘d’ o omettendone altre). A volte sono presenti anche difficoltà ad imparare le pause ed il ritmo della frase e le tabelline; può essere disturbata l’espressione verbale quando il bambino si trova a raccontare qualcosa che lo riguarda. Come si diagnostica la dislessia? La diagnosi della dislessia è un processo complesso che richiede la collaborazione di diverse figure professionali, tra cui neuropsichiatri infantili, psicologi e logopedisti. La valutazione avviene attraverso una serie di test standardizzati volti a misurare le capacità di lettura, scrittura e comprensione del linguaggio del soggetto. Quando si può fare una diagnosi? La diagnosi di dislessia non può essere effettuata prima dei sei anni, quando il bambino ha avuto sufficiente esposizione alla lettura e alla scrittura. Tuttavia, in molti casi, segni precoci di difficoltà linguistiche possono apparire già durante la scuola materna. Cosa possono fare i genitori di un bambino dislessico? Per prima cosa si può ricorrere a semplici provvedimenti, come ad esempio concedere maggior tempo per l’esecuzione dei compiti, l’uso della calcolatrice e del computer. La videoscrittura può essere d’aiuto: i tasti del computer consentono di identificare meglio le lettere da digitare, per non parlare dell’utilizzo di software appositamente studiati per trattare i casi di dislessia. Come superare la dislessia? La dislessia è una condizione che può essere gestita con successo attraverso un approccio educativo personalizzato e interventi mirati. L’obiettivo non è “curare” la dislessia, ma piuttosto aiutare le persone a sviluppare strategie per affrontare le loro difficoltà e sfruttare i loro punti di forza. Quali sono gli approcci educativi più indicati? – Metodo fonetico: è uno dei metodi più efficaci, basato sull’insegnamento dei suoni delle lettere e dei loro gruppi, per aiutare i bambini a decodificare le parole. Programmi specifici come il metodo Orton-Gillingham si concentrano su un apprendimento multisensoriale e strutturato per facilitare la comprensione. – Apprendimento multisensoriale: coinvolge l’uso di più sensi (vista, udito, tatto) per rinforzare le abilità di lettura e scrittura. Questo approccio è particolarmente utile per gli studenti con dislessia. – Uso di tecnologia assistiva: strumenti digitali come software di lettura automatica o applicazioni di sintesi vocale possono aiutare i dislessici a leggere testi più velocemente e con maggiore comprensione. Può essere utile ricorrere a un logopedista? Si. Il/la logopedista è un operatore sanitario specializzato nell’educazione e nella rieducazione dei disturbi della voce, della parola e del linguaggio. E’ indicato il supporto psicologico? Si. La dislessia può influire sulla sfera emotiva del bambino, generando frustrazione, bassa autostima e ansia. È importante offrire un supporto psicologico per affrontare questi aspetti. Perché è importante una diagnosi precoce? Individuare la dislessia fin dalle prime fasi della vita scolastica può fare una grande differenza nel modo in cui il bambino affronta le difficoltà. Una diagnosi precoce consente agli insegnanti e ai genitori di adottare strategie mirate per sostenere l’apprendimento, prevenendo così il rischio di insuccesso o di abbandono scolastico. Cosa possono fare gli adulti dislessici? Possono sviluppare tecniche compensative sfruttando i loro punti di forza in altri ambiti. Dr. Walter La Gatta Immagine Foto di Artem Podrez [...] Read more...
Settembre 26, 2024Il disturbo bipolare Il disturbo bipolare è un disturbo dell’umore caratterizzato da oscillazioni estreme tra stati di eccitazione euforica (mania o ipomania) e periodi di depressione profonda. Queste fluttuazioni possono influenzare drasticamente la vita quotidiana di chi ne soffre e delle persone che li circondano. Approfondiamo l’argomento. Quali sono le cause del disturbo bipolare? Le cause del disturbo bipolare sono complesse e comprendono una combinazione di fattori genetici, biologici e ambientali. Studi su famiglie e gemelli hanno messo in rilievo una forte componente ereditaria nel disturbo bipolare. Le persone con un parente di primo grado (genitore, fratello, sorella) affetto da disturbo bipolare hanno un rischio significativamente maggiore di sviluppare questa patologia rispetto alla popolazione generale. Le ricerche mostrano alterazioni nella struttura e nel funzionamento di alcune aree cerebrali, come l’ippocampo e l’amigdala, coinvolte nella regolazione delle emozioni. Squilibri nei neurotrasmettitori, inoltre, come la serotonina, la dopamina e la noradrenalina, possono influenzare i cambiamenti di umore tipici del disturbo bipolare. Eventi stressanti, traumi emotivi, abuso di sostanze e fattori socio-culturali possono contribuire a scatenare o esacerbare episodi bipolari in persone predisposte. Quali sono i sintomi? Il disturbo bipolare si manifesta con episodi di umore estremamente elevato (mania o ipomania) alternati a episodi depressivi. Le fasi maniacali e depressive possono durare giorni, settimane o mesi e variano in intensità. Quali sono i segni di un episodio maniacale? – Sensazione di estrema felicità, energia o irritabilità che dura almeno una settimana. – La persona può sentirsi iperattiva, avere bisogno di poco sonno e impegnarsi in numerose attività, spesso in modo caotico o disorganizzato. – Si hanno difficoltà a fermare i pensieri e si parla in modo rapido e continuo, saltando da un argomento all’altro. – Spese eccessive, guida spericolata, abusi di sostanze o comportamenti sessuali promiscui. – Difficoltà a riconoscere che il proprio comportamento è inappropriato o pericoloso. Quali sono i segni di un episodio depressivo? – Tristezza, disperazione o senso di vuoto persistente per almeno due settimane. – Mancanza di interesse o piacere nelle attività quotidiane, compresi gli hobby precedentemente amati. – La persona può sentirsi esausta anche dopo aver dormito molte ore. – Insonnia o ipersonnia (dormire troppo). – Nei casi più gravi, la persona può avere pensieri suicidi o tentare di porre fine alla propria vita. In quali forme si manifesta il disturbo bipolare? Il disturbo bipolare può manifestarsi in diverse forme, principalmente: 1. Tipo I: Caratterizzato da almeno un episodio maniacale completo (che può essere preceduto o seguito da episodi depressivi). 2. Tipo II: Riguarda episodi depressivi gravi e episodi di ipomania, una forma più lieve di mania. Non è presente la mania completa, ma i sintomi possono essere altrettanto invalidanti. 3. Ciclotimia: Fluttuazioni tra ipomania e sintomi depressivi di intensità inferiore rispetto al disturbo bipolare completo. La ciclotimia può evolvere in disturbo bipolare se non trattata. Quanto è diffuso il disturbo bipolare? Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), il disturbo bipolare colpisce circa l’1-3% della popolazione mondiale, con una prevalenza simile tra uomini e donne. Il disturbo si manifesta per la prima volta generalmente tra i 15 e i 30 anni, ma può insorgere anche nell’infanzia o nella tarda età adulta. Come riconoscere i segnali della malattia? Riconoscere i segnali d’allarme di un episodio maniacale o depressivo è fondamentale per un intervento precoce. Ecco alcuni segnali a cui prestare attenzione: – Cambiamenti improvvisi nell’umore o nel comportamento. – Periodi prolungati di euforia o irritabilità, seguiti da periodi di depressione. – Comportamenti impulsivi e autodistruttivi. – Cambiamenti nel sonno e nei livelli di energia (insonnia durante la mania, sonnolenza durante la depressione). – Difficoltà a concentrarsi o prendere decisioni. Cosa fare se si vive con una persona con disturbo bipolare? Convivere con una persona affetta da disturbo bipolare può essere impegnativo, ma con comprensione, supporto e strategie adeguate è possibile migliorare la qualità della vita di entrambe le parti. 1. Il primo suggerimento è informarsi su questa patologia: conoscere il disturbo bipolare e i suoi sintomi aiuta a comprendere meglio il comportamento della persona malata e a non prenderlo come qualcosa di personale. Partecipare a gruppi di supporto o consultare materiale informativo è un buon punto di partenza. 2. Tenere un diario dell’umore o stabilire un piano d’emergenza con il medico può essere utile per prevenire crisi gravi. 3. Assicurarsi che la persona assuma i farmaci prescritti, generalmente stabilizzatori dell’umore, antidepressivi. Incoraggiare la persona a seguire scrupolosamente la terapia è cruciale per mantenere la stabilità dell’umore. 4. Fornire ascolto e comprensione: durante un episodio depressivo, la persona potrebbe sentirsi scoraggiata e isolata, mentre durante un episodio maniacale potrebbe aver bisogno di aiuto per gestire i comportamenti impulsivi e rischiosi. 5. Definire dei limiti per proteggere la propria salute mentale. Convivere con una persona bipolare può essere stressante, e prendersi delle pause per prendersi cura di se stessi è essenziale. 6. Se necessario, cercare aiuto in una psicoterapia, che può rivelarsi uno strumento utile per gestire al meglio le emozioni e l’umore. Può essere utile sviluppare l’aspetto artistico durante una crisi maniacale? Sicuramente in molti casi disturbo psichiatrico e creatività coesistono. Questa correlazione disturbo bipolare-creatività tuttavia non è provato che ci sia ed inoltre potrebbe essere un errore considerare una persona con disturbo bipolare un “creativo”, in quanto potrebbe portare a sottovalutare i pericoli che la malattia comporta, per sé e per gli altri. Dr. Walter La Gatta Immagine Foto di Andrea Piacquadio [...] Read more...
Luglio 29, 2024Sexting: vantaggi e pericoli Cos’è il Sexting? Il termine “sexting” deriva dalla fusione delle parole “sex” e “texting” e si riferisce all’invio e alla ricezione di messaggi, immagini o video a contenuto sessuale tramite dispositivi elettronici, come smartphone o computer. Da quanto tempo si conosce questo fenomeno? Questo fenomeno è diventato sempre più diffuso con l’avvento della tecnologia mobile e delle piattaforme di messaggistica istantanea. Come avviene? Il sexting può avvenire tramite chat sui telefoni cellulari o tramite altri servizi di messaggistica sui siti di social media. Chi pratica sexting? Generalmente sono gli adolescenti e i giovani adulti, cioè i più esperti di tecnologia, ad utilizzare questo metodo di comunicazione sessuale. Qual è la differenza tra sexting e cybersex? Per Cybersex si intende qualsiasi tipo di attività sessuale che utilizza Internet. Il sexting è un tipo di cybersex. Quali sono i vantaggi del Sexting? Per le coppie, il sexting può rafforzare il legame emotivo e fisico: condividere fantasie e desideri sessuali attraverso il sexting può aumentare l’intimità e migliorare la comunicazione all’interno della relazione, specie se si è distanti. Ricevere apprezzamenti e complimenti attraverso il sexting può aumentare l’autostima e la sicurezza in se stessi, contribuendo a una percezione positiva del proprio corpo e della propria sessualità. Quali sono i pericoli del Sexting? Uno dei rischi più significativi del sexting è la possibile violazione della privacy: immagini e video intimi possono essere condivisi senza il consenso del proprietario, causando imbarazzo e danni alla reputazione. Le immagini e i video intimi possono, inoltre, essere utilizzati come strumento di ricatto o vendetta. In alcuni casi, ex partner o malintenzionati possono minacciare di diffondere il materiale per ottenere qualcosa in cambio. Inoltre, la creazione e la condivisione di immagini sessuali di minori è illegale e può comportare accuse di pedopornografia. Cosa è il revenge porn? E’ un’attività illecita, in cui un ex partner rende pubblicamente disponibili contenuti intimi della sua passata relazione, senza avere l’autorizzazione del/della partner. Quali consigli si possono dare? 1. Il sexting dovrebbe essere usato solo tra individui consenzienti e in un contesto di fiducia reciproca. È essenziale discutere apertamente dei limiti e delle aspettative prima di inviare o ricevere materiale sessuale. 2. Utilizzare piattaforme sicure e con crittografia end-to-end per proteggere i contenuti inviati. Evitare di salvare immagini o video su dispositivi condivisi o accessibili ad altri. 3. Utilizzare filtri o app che avvertono se qualcuno sta facendo uno screenshot del materiale inviato. Ricordare che, una volta inviato, è difficile avere il controllo totale su come verrà utilizzato il contenuto. Quale è il rischio che corrono gli adolescenti con il sexting? Gli adolescenti affrontano gli stessi rischi degli adulti, con l’aggiunta del rischio di cyberbullismo. Cosa è il cyberbullismo? Il cyberbullismo si ha quando un adolescente utilizza Internet e la tecnologia per molestare o intimidire un altro adolescente. Dr. Walter La Gatta Immagine: Foto di Eddy Billard su Unsplash [...] Read more...
Luglio 29, 2024Storia dell’educazione sessuale Nonostante il progresso, in molte culture e paesi, parlare apertamente di sessualità è ancora tabù, e l’educazione sessuale è spesso inadeguata o inesistente. Le differenze nei valori culturali, religiosi e politici possono influenzare significativamente l’approccio e la qualità dell’educazione sessuale offerta. In questo articolo ripercorreremo la storia dell’educazione sessuale, a partire dalle società più antiche, fino ai giorni nostri. Civiltà antiche L’educazione sessuale ha radici che risalgono alle civiltà antiche. Nelle società greca e romana, la sessualità era parte integrante della cultura e della vita quotidiana. Testi come il “Kama Sutra” in India e “L’Ars Amatoria” di Ovidio a Roma non solo esploravano la sessualità, ma fungevano anche da manuali di comportamento sessuale. Medio Evo Durante il Medio Evo in Europa, la Chiesa cattolica ha avuto una forte influenza sulla percezione della sessualità. L’educazione sessuale è stata, pertanto, per lo più confinata a discussioni religiose e morali, con un’enfasi sull’astinenza e la moralità sessuale. Rinascimento e Illuminismo Con il Rinascimento e l’Illuminismo, si è osservato un rinnovato interesse per il corpo umano e la sessualità. Artisti come Leonardo da Vinci e Michelangelo hanno esplorato la forma umana nei loro lavori, mentre filosofi e scienziati cominciarono a studiare la sessualità da un punto di vista più scientifico. XVIII Secolo Nel XVIII secolo, l’educazione sessuale iniziò a separarsi dalle restrizioni religiose, grazie a pensatori come Jean-Jacques Rousseau, che enfatizzavano l’importanza dell’educazione naturale e olistica, incluso l’aspetto sessuale. XIX Secolo Il XIX secolo ha visto un aumento dell’urbanizzazione e dei cambiamenti sociali che hanno portato a una maggiore necessità di educazione sessuale dei giovani. Tuttavia, l’approccio verso la sessualità è rimasto spesso moralistico e repressivo. L’educazione sessuale è stata spesso insegnata attraverso una lente di moralità e igiene personale, con un’enfasi sulla prevenzione delle malattie sessualmente trasmissibili (MST) e sulla promozione della castità. XX Secolo All’inizio del XX secolo, la psicoanalisi di Sigmund Freud portò a una maggiore comprensione della sessualità umana come parte centrale della psiche. Alfred Kinsey, con le sue rivoluzionarie ricerche sulla sessualità negli anni ’40 e ’50, documentò l’ampia varietà dei comportamenti sessuali umani, spostando il discorso pubblico verso una visione più aperta e scientifica. Gli anni ’60 e ’70 furono un periodo di cambiamento radicale. La rivoluzione sessuale portò a una maggiore apertura e accettazione della sessualità, influenzata da movimenti per i diritti civili e femministi, i quali indussero ad una riflessione approfondita sul rapporto uomo-donna. L’introduzione della pillola contraccettiva nel 1960 diede alle donne un controllo senza precedenti sulla loro fertilità, contribuendo a una maggiore libertà sessuale. In questo periodo, l’educazione sessuale cominciò a essere introdotta nei programmi scolastici in molte nazioni occidentali. L’approccio divenne più olistico, affrontando non solo la biologia della riproduzione ma anche le relazioni, il rispetto reciproco, e la consapevolezza di sé. L’epidemia di AIDS degli anni ’80 e ’90 portò l’educazione sessuale al centro dell’attenzione pubblica. Le campagne di prevenzione delle MST e dell’HIV/AIDS divennero cruciali, e molti Stati implementarono programmi di educazione sessuale nelle scuole per combattere la diffusione del virus. L’educazione sessuale cominciò a includere informazioni su pratiche sessuali sicure, l’uso del preservativo e l’importanza dei test per le MST. L’educazione sessuale tornò dunque alla ribalta, in quel periodo, con scopi di profilassi: per il bene della salute anche le persone più chiuse su questi argomenti sembravano disponibili a superare gli atteggiamenti di condanna moralistica della sessualità, per poter parlare invece di igiene sessuale e dunque anche di preservativi, omosessualità, promiscuità ecc. XXI Secolo Oggi le moderne tecnologie dell’informazione e della comunicazione hanno reso l’accesso alle informazioni sulla sessualità più facile che mai. Tuttavia, la qualità e l’accuratezza di queste informazioni variano notevolmente, a seconda delle fonti. Oggi, l’educazione sessuale è vista sempre più come un diritto fondamentale. Organizzazioni internazionali come l’UNESCO promuovono un’educazione sessuale completa che copra non solo la biologia e la prevenzione delle malattie, ma anche aspetti psicologici, emotivi e sociali della sessualità. In Italia, come in molti altri Paesi del mondo, vengono pubblicati molti libri sull’argomento, sia rivolti agli interessati, bambini e adolescenti, sia rivolti agli educatori ed ai genitori, per insegnare loro come affrontare gli argomenti più spinosi dell’informazione sessuale. Essi però non sono mai diventati dei best seller, non hanno incontrato particolare diffusione fra la popolazione e dunque è lecito pensare che ben poche persone abbiano ricevuto informazioni sulla sessualità in un libro. Gli aspetti della sessualità che una volta si imparavano dagli amici, in famiglia (particolarmente dalla madre, con figli di entrambi i sessi) vengono sempre più spesso appresi sui media e, in particolare, su Internet (siti, app, social, ecc.) Quanto all’educazione sessuale nelle scuole, sebbene vi siano e vi siano stati, anche in passato, sporadici tentativi di insegnare l’educazione sessuale nel contesto scolastico, ben poche persone possono affermare di aver trovato in questo ambito la principale fonte di informazione su tali argomenti. Eppure, il luogo e il mezzo che appare più idoneo per la trasmissione corretta di questo genere di informazioni sembra essere proprio la scuola, anche se è estremamente difficile raggiungere una visione condivisa su quali argomenti insegnare ai ragazzi. La sessualità infatti è stata intesa, per secoli, quasi unicamente come possibilità e capacità di riproduzione, e limitata a ciò. Difficile che in un programma di educazione sessuale si sia parlato, o si possa ancora oggi parlare, delle sensazioni fisiche che accompagnano alcune attività: come se esse non facessero parte di un normale sviluppo della persona e come se il sesso non fosse, come è, il nucleo centrale dell’identità della nostra personalità. Il dibattito sul tema dell’introduzione dell’educazione sessuale nelle scuole è iniziato in Italia già nei primi anni del secolo scorso: se ne interessò anche il Parlamento, dove fu avanzata una proposta di legge per l’introduzione di un corso di educazione sessuale nelle scuole. L’iniziativa non ebbe successo e da allora quasi niente è cambiato: l’educazione sessuale viene bloccata in vario modo, dai genitori, che si sentono imbarazzati ed incerti, dagli educatori, che si sentono chiamati ad un compito cui non sono preparati, dagli atteggiamenti opposti ed estremi di chi vuole dire tutto e chi non vuole dire quasi niente, da chi vuole reprimere e chi vuole liberalizzare, da chi vuole spiegare ricorrendo alla biologia e alla psicologia e chi vuole farlo ricorrendo alla filosofia e alla religione, da chi vuole delegare tutto agli ‘esperti’, e chi vuole lasciare la responsabilità alla famiglia, ecc. In molti Paesi, incluso il nostro, vi sono influenti lobbies, politiche e religiose, che ritengono l’educazione sessuale nelle scuole un elemento di “corruzione” dei giovani. Dr. Walter La Gatta Immagine Wallpaper Leggi anche: Educazione sessuale: quale linguaggio, quali contenuti [...] Read more...

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